Politica

La Tangentopoli dei magistrati. Nella "cupola" pure i giornalisti

La Gdf a caccia di chi gestiva i fondi usati per alterare le nomine nelle Procure. Nel mirino i contatti del pm Fava con i cronisti del "Fatto" e della "Verità" sul dossier contro Pignatone

La Tangentopoli dei magistrati. Nella "cupola" pure i giornalisti

Non era solo una faccenda di potere. A trasformare in un mercato a cielo aperto la nomina dei capi degli uffici giudiziari, a inquinare fin nelle falde più profonde i meccanismi posti a tutela dell'indipendenza della magistratura, c'erano anche i soldi. Un fiume di quattrini che ha oliato le procedure di selezione, spostato equilibri, convinto gli incerti. È questo il grande «non detto» dell'inchiesta che sta travolgendo, più dei singoli giudici, l'intera istituzione, il terzo potere dello Stato nei suoi organismi e nel suo prestigio.

La parte emersa dell'inchiesta sta nel cd che la Procura di Perugia ha trasmesso al Consiglio superiore della magistratura, con i risultati di un anno di intercettazioni eccellenti, a partire da quella di Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati. É il materiale che ha già travolto Palamara e Luigi Spina, membro del Csm, e che ha costretto altri quattro componenti del Consiglio ad autosospendersi. È materiale quasi brutale nella sua chiarezza: emerge la rete dei favori, delle faide politiche, della connection micidiale con giornalisti e massmedia.

E poi c'è il resto, la parte ancora sotto traccia, l'inchiesta-bis della Guardia di finanza che sta dando la caccia ai soldi. Su chi gestisse i fondi necessari ad alterare il corso delle nomine, gli inquirenti hanno pochi dubbi. Tutto ruota intorno all'avvocato siciliano Pietro Amara, che aveva a libro paga magistrati amministrativi, pm, giudici. Finora era considerato un battitore libero della mazzetta giudiziaria. I nuovi sviluppi ipotizzano alle sue spalle un entità più inquietate, un coacervo di interessi fatto anche di grandi gruppi imprenditoriali decisi a difendere i loro interessi in questa sorta di Tangentopoli delle toghe.

In attesa degli sviluppi, dal fronte emerso dell'inchiesta - ovvero dal cd di Perugia - emergono dettagli che confermano anch'essi che siamo solo agli inizi del terremoto. Si scopre che i virus inoculati dalla Guardia di finanze nei telefoni di Luca Palamara e di altri indagati sono riusciti a risalire indietro nel tempo, documentando anche il lato oscuro del Csm in carica fino all'anno scorso. È il Csm che - come ricorda ieri Franco Roberti, ex procuratore nazionale antimafia - ridisegnò quasi per intero gli organigrammi della magistratura, dopo che Matteo Renzi aveva mandato in pensione d'autorità tutti gli ultrasettantenni, liberando decine di posti chiave. Ne scaturì una spartizione senza precedenti, davanti alla quale - dice Roberti - «il caso Palamara è solo la punta dell'iceberg». Una intera generazione di procuratori e presidenti di tribunale eletti in quei mesi rischia di essere investita dallo scandalo.

Poi c'è la politica, a partire dalle faide interne al Pd, che emergono con chiarezza. Nelle carte ci sono intercettazioni in cui David Ermini, il deputato dem che dal settembre scorso è il vicepresidente del Csm, viene considerato inaffidabile, non sufficientemente pronto ad eseguire le scelte prese ben al di fuori dal Consiglio superiore. L'asse diretto tra Luca Lotti, braccio destro di Matteo Renzi, e Luca Palamara e un congruo numero di consiglieri togati del Csm è un modo anche per bypassare le resistenze di Ermini.

E infine c'è la stampa, che nella battaglia intorno al Csm ha svolto un ruolo cruciale: a volte facendo il suo mestiere, a volte venendo - consapevolmente o meno - utilizzata nei violenti scontri tra magistrati e fazioni. Nel cd consegnato al Csm ci sono le registrazioni dei contatti ravvicinati tra il pm romano Stefano Rocco Fava e due giornalisti, Marco Lillo del Fatto quotidiano e Giacomo Amadori della Verità. È Fava a passare ai due giornalisti il testo del velenoso esposto contro il procuratore uscente di Roma, Giuseppe Pignatone e il suo vice Paolo Ielo, che secondo l'inchiesta costituì un tassello fondamentale della strategia per conquistare la Procura di Roma. Ma a colpire chi ha potuto leggere le intercettazioni è la sicumera con cui Fava spiega a Palamara di avere il pieno controllo di quanto può trapelare grazie alla stampa amica e concorda con lui addirittura i tempi di uscita degli articoli.

Un ulteriore veleno, in questa stagione che cambierà per sempre la magistratura italiana.

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