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È gelo tra Salvini e Di Maio. Tria denuncia: lettera rubata

I due si incrociano al Colle: «Ci si vede...». Salta il vertice Il ministro dai Pm per la risposta alla Ue finita ai media

È gelo tra Salvini e Di Maio. Tria denuncia: lettera rubata

I Castore e Polluce (si fa per dire) del governo si incontrano verso sera nei giardini del Quirinale, entrambi in ghingheri per la festa della Repubblica. Una rapida stretta di mano e poi si siedono a due tavoli diversi e distanti, ignorandosi. «Ci vediamo lunedì», fa speranzoso Luigi Di Maio. «Sì, ci si sente», replica Matteo Salvini.

E a dimostrazione che il clima nel governo non sembra destinato a migliorare arriva la nota con cui il ministero delle Finanze annuncia che domani alla Procura arriverà una denuncia del ministro Giovanni Tria, si presume contro ignoti, per «divulgazione di atti secretati e violazione di segreto d'ufficio». È il risultato della diffusione di una bozza della lettera con cui Tria intendeva rispondere ai rilievi dell'Unione europea sui nostri conti traballanti. Diffusione a sua volta risultato delle tensioni che rendono difficile la vita dell'esecutivo.

Tornando ai due vicepremier, il leghista si è premurato di far sapere - via cronisti - a Gigino e al povero Conte che lunedì non si farà nessun vertice, come il premier aveva fatto sapere: si vedessero loro. «Io da domani a giovedì sono fuori Roma, torno a Roma giovedì sera: difficile vedersi prima», rende noto. Venerdì ci dovrebbe essere un Consiglio dei ministri, magari ci si vede subito prima: fino ad allora, i due grillini possono restare appesi. Un modo per fare spallucce anche alla solenne esternazione di Conte: «Lunedì voglio parlare agli italiani», che certamente non aspettano altro. Salvini difficilmente lo ascolterà: c'è la campagna elettorale per i ballottaggi. Tanto sa che Di Maio è atterrito da possibili elezioni, e che a Conte (nonostante le veline veicolate ai giornali: «Non si può andare avanti, ogni giorno un ultimatum di Salvini: se continua così io torno a fare l'avvocato») non passa neppure per l'anticamera del cervello di dimettersi. Anche perché sul Colle gli hanno fatto capire che, in caso, non verrebbe reincaricato come sperava. Lui tornerebbe davvero a fare l'avvocato, e le elezioni si avvicinerebbero.

Dunque, Salvini può continuare a lanciare i suoi roboanti ultimatum, dettando mirabolanti agende a cominciare dal taglio (non si sa con che soldi) delle tasse: «Userò - annuncia - il consenso che voi mi avete dato non per chiedere una poltrona in più, chi se ne frega, ma per dire a Bruxelles: lasciateci lavorare e autorizzateci ad abbassare le tasse. Altrimenti lo facciamo lo stesso, e vedremo chi ha la testa più dura». L'accenno alle «poltrone» è chiaro: Salvini sa benissimo che nella Commissione non avrà posti chiave: gli mancano alleati, neppure i paesi filo-sovranisti stanno con lui. Poi un nuovo sberleffo alle istanze grilline: «I redditi non piovono dall'alto. E chi lo paga il salario minimo, se non gli imprenditori?». Quanto al governo, può andare avanti solo ad un patto: «Gli italiani vogliono dei sì: porti, strade, sviluppo, meno tasse e meno burocrazia. La politica dei no che qualche amico dei 5 stelle ha portato avanti nelle ultime settimane è stata bocciata».

Gli fa eco, minaccioso, il viceministro leghista Garavaglia: «Se arrivano i sì su Tav, autonomia, crescita, va bene. Se no meglio andare al voto».

Di Maio cerca di fare buon viso a cattivo gioco, e si vanta di aver stoppato le «sforbiciate lacrime e sangue» contenute nella prima bozza della lettera di Tria alla Commissione: «Nella lettera all'Ue è stato cancellato il passaggio che prevedeva tagli alla spesa sociale». Poi aggiunge, con una captatio benevolentiae verso Salvini: «L'unica cosa da tagliare sono le tasse». I grillini resistono, aggrappati al governo: «Nonostante giornate un po' confuse - sospira Stefano Buffagni - serve lucidità e mettere il bene comune al primo posto».

Il bene comune delle poltrone, si immagina.

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