«Un governo senza fiducia? Può stare in carica per mesi»

Il docente: «Ci sono precedenti negli anni '50. Alle Camere potrebbe chiedere il via libera sui singoli provvedimenti»

Giuseppe Marino

Roma Benvenuti nella «crisi più grave dal 1992 a oggi». Il marchio è di Alfonso Celotto, docente di diritto, esperto di istituzioni assai citato e penna brillante nei suoi romanzi.

Professore, quante prime volte in questa crisi. L'Italia aveva già avuto un «governo neutrale»?

«A memoria direi di no, è una formula nuova, resa necessaria dall'ingiusta accezione negativa assunta dal termine governo tecnico da Monti in poi».

Si sarebbe potuto chiamare pure governo d'onore, perché nascerà con paletti di natura ben poco giuridici.

«Sì, l'impegno a non candidarsi, il mandato a scadenza: sono tutti impegni morali non vincoli giuridici. Se per assurdo chi sarà scelto non li rispettasse, non ci sarebbe alcuno strumento giuridico per obbligarli, se non che il contraccolpo sulla reputazione di chi non mantenesse la parola».

Quasi tutti i partiti hanno respinto la proposta del Presidente. Ma il governo potrà partire lo stesso?

«La Costituzione impone che il premier incaricato, una volta sciolta la riserva e formato il governo, si presenti entro dieci giorni alle Camere per chiedere la fiducia. In realtà ci sono precedenti in cui, negata la fiducia in una delle Camere, non si vota nell'altra. E comunque, anche senza la fiducia, il governo resterà in carica per gli affari correnti. Sarà un esecutivo indebolito, ma potrà andare avanti chiedendo al Parlamento consensi di volta in volta su ciascun provvedimento. Ci sono precedenti anche in questo caso: il Fanfani I, il De Gasperi VIII».

I partiti comunque non possono obbligare il presidente a sciogliere le Camere.

«No, e ci sono stati governi senza fiducia, come è stato per uno degli esecutivi Fanfani, che sono andati avanti anche sei mesi. C'è poi il caso di Andreotti, il governo nato grazie alle astensioni, un monocolore Dc che durò quasi due anni. Ma certo, se i partiti cominciassero a bocciare ogni iniziativa del governo, si creerebbe una situazione difficile da sostenere. Non vedo invece, come fanno alcuni, rischi di delegittimazione del presidente della Repubblica».

Come se ne esce, il voto è l'unica opzione?

«Con il discorso di lunedì il Quirinale ha dimostrato chiarezza di idee e ha espresso apertamente un auspicio: che un accordo politico tra i partiti si possa trovare anche dopo la nascita del governo neutrale che, a quel punto, si farebbe da parte. Mi pare un'opzione da non escludere».

La possibilità che si vada presto alle urne resta alta.

«Indubbiamente. Sciogliendo le Camere entro la prossima settimana ci sarebbe tempo per andare a votare a luglio. Sarebbe un fatto inedito per il Paese. Ma è anche vero che l'opzione di andare a votare a settembre è ad alto rischio. Considerando la situazione, è difficile che si riesca a formare un governo prima di un mese dopo il voto. E così, il principale adempimento di cui il Paese ha bisogno, la legge di bilancio, sarebbe impossibile da varare».

Che altra possibilità c'è?

«Un voto a gennaio sarebbe senz'altro più ragionevole. Anche considerando la lezione di Spagna e Grecia».

Ovvero?

«Sono i due Paesi che di recente non sono riusciti a formare un governo e sono tornati alle urne in breve tempo. Il risultato? Crescita dell'astensionismo, perché la gente sempre di più si chiederebbe a che serve votare. E ancora: concentrazione del voto sui partiti maggiori e meno consensi per i più piccoli. Ma alla fine, il secondo voto non ha mutato in modo radicale il quadro politico. Ed è finita che i partiti si sono accordati per quel governo di coalizione che non hanno voluto fare dopo il primo voto».

Ci

sono rischi per l'Italia?

«Di sicuro c'è il pericolo, in tempi di antipolitica, di una crescente delegittimazione delle istituzioni democratiche. Nessun partito ne guadagnerebbe. E c'è il rischio di un Paese che non decide».

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