Un milione di manifestanti per strada non si vedono tutti i giorni. Neanche a Hong Kong, ultima isola di semilibertà nella Cina continentale dove le crescenti preoccupazioni per le sottili manovre di Pechino tendenti alla «normalizzazione» della ex colonia britannica mobilitano spesso grandi folle. É successo ieri, e l'occasione è stata fornita dal più recente capitolo di questa politica del presidente Xi Jinping che ha come obiettivo finale, certamente entro il termine del 2047 quando scadranno i cinquant'anni di regime speciale concordato con Londra ventidue anni fa, la definitiva assimilazione di Hong Kong nell'illiberale Stato comunista cinese. Stiamo parlando del tentativo di far approvare dal Consiglio Legislativo il Parlamento semilibero della ex colonia una nuova norma che consentirebbe l'estradizione anche verso la Cina. La risposta massiccia dell'opinione pubblica di Hong Kong fa comprendere che c'è in ballo molto di più di una procedura processuale: la posta gioco, con ogni evidenza, è la possibilità che si aprirebbe di consegnare alla giustizia cinese (che non è altro se non la longa manus del partito comunista al potere assoluto dal 1949) oppositori e voci critiche di Hong Kong.
La manifestazione di ieri era stata preceduta giovedì scorso da una mobilitazione degli ambienti giuridici della provincia semiautonoma cinese (questo è lo status attuale di Hong Kong), sostenuti dalle associazioni degli imprenditori locali e anche da diplomatici occidentali, che hanno lanciato l'allarme nei confronti di una mossa che rappresenterebbe un subdolo tradimento degli impegni presi dal governo di Hong Kong, quello appunto di non consegnare cittadini locali ma anche quelli occidentali che vivono nell'ex colonia britannica - ai tribunali della Repubblica Popolare Cinese. Già alla fine di aprile le prime avvisaglie di questo disegno liberticida avevano portato alla più massiccia mobilitazione di manifestanti dai tempi della «rivolta degli ombrelli» del 2014. Ma così come non si era tenuta in alcun conto la volontà dei dimostranti filodemocratici di cinque anni fa, allo stesso modo era rimasta inascoltata la voce di chi un mese fa gridava «No all'estradizione».
Il fatto è che la legge elettorale di Hong Kong è stata concepita proprio per impedire che possa in alcun modo formarsi una maggioranza parlamentare ostile agli interessi di Pechino, ignorando il fatto che i sentimenti di chi vive nella ex colonia sono mediamente assai lontani da quelli sperati (e propagandati) dal regime guidato dal maoista Xi. A Hong Kong è ben chiaro che il nuovo disegno di legge è stato concepito nelle stanze del potere di Pechino, e che la motivazione ufficiale per portarlo avanti (consentire l'estradizione verso Taiwan di un cittadino di Hong Kong ricercato per omicidio) non è altro che un pretesto per rendere possibile le estradizioni verso la Cina di chi contesta la politica cinese nell'ex colonia. Finire estradati in Cina per motivi di opinione, non c'è bisogno di ricordarlo, equivale a rischiare anche la propria vita, e certamente la propria libertà. Lo dimostrano i sempre più frequenti casi di sparizioni da Hong Kong di critici del regime: un miliardario e un gruppo di editori indipendenti, in particolare, sono poi ricomparsi in veste di detenuti nella Cina di Xi.
Il quale, con questa mossa, conferma la strategia staliniana cosiddetta del salame che va adottando nei confronti di Hong Kong: una fetta dopo l'altra, il potere rosso si mangia le libertà civili. Non c'è fretta, per chiudere la partita mancano ancora ventott'anni.
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