Però i pensionati normali rischiano di pagare due volte

Chi chiederà l'uscita anticipata dal lavoro avrà una penalizzazione. E forse una tassa

Però i pensionati normali  rischiano di pagare due volte

Roma - Prestito pensionistico sì. Prestito pensionistico no. Ma soprattutto l'Ape (l'anticipo del pensionamento secondo il nuovo acronimo renziano) chi lo paga? La domanda non è peregrina perché quando lo Stato fa qualcosa per i cittadini c'è sempre un costo che, al momento, è ignoto. Anzi, per dirla tutta, potrebbe tradursi in una doppia tassazione per il pensionando: un assegno più magro e qualche balzello imprevisto.

Partiamo, dunque, dai fondamentali. L'Ape, che dovrebbe essere inserito nella Stabilità ed entrare in vigore nel 2017 (con buona pace di chi sperava che il governo si sarebbe brigato prima), è rivolto ai nati nel 1951, 1952 e 1953 che l'anno prossimo vorranno ritirarsi prima di aver maturato i requisiti, ossia anticipando di uno, due o tre anni l'uscita dal lavoro. Non è una flessibilità generalizzata ma mirata e, come ha detto ieri il commissario alla spending review Yoram Gutgeld, «il governo sta lavorando a un sistema per l'uscita anticipata dal lavoro rispetto all'età di vecchiaia che prevede anche il prestito pensionistico con l'intervento del sistema bancario per evitare che tutto l'esborso anticipato pesi sullo Stato».

Questa flessibilità in versione light, come aveva anticipato il sottosegretario Nannicini, costa dai 5 ai 7 miliardi di euro ed è insostenibile per uno Stato che rimandando il pensionamento dei cittadini evita un ulteriore sbilancio dei conti pubblici. L'idea è quella di decurtare le pensioni a seconda dell'anticipo e dell'entità (dal 2% annuo per le più basse fino al 5-6% per quelle di importo più elevato). Insomma, chi si ritira tre anni e aspira a un assegno sostanzioso potrebbe perdere il 20% circa. Il trattamento verrebbe garantito da un prestito bancario restituibile nella quota capitale in 18 anni. Lo stato pagherebbe gli interessi (1 miliardo circa il costo previsto) e l'assicurazione sulla premorienza dell'assistito. C'è un problema: garantendo a questi individui la possibilità di lasciare il lavoro grazie a un prestito, lo Stato rinuncerebbe alla loro Irpef per un massimo di tre anni. Un prestito, infatti, non è reddito. Il governo sta ancora lavorando su questo tema. Anche se la platea è sostanzialmente contenuta, bisognerebbe trovare il modo di far quadrare i conti e questo lo si può fare o punendo i diretti interessati in qualche modo oppure punendo la collettività con una maggiore imposta su qualche altro capitolo.

Ecco perché l'ex ministro del Lavoro nonché esponente della sinistra Pd, Cesare Damiano, sebbene contento per aver visto finalmente soddisfatte le istanze da lui rappresentate, ha aperto un nuovo fronte di scontro con il premier Matteo Renzi.

«La proposta del governo - ha evidenziato - va meglio compresa: siamo d'accordo sull'anticipo con penalizzazioni ragionevoli (proponiamo 4 anni prima con il 2% all'anno), ma vorremmo una misura strutturale per tutti ed escludiamo la logica del prestito». Logicamente Damiano cerca di ottenere il massimo possibile. Forse dovrebbe accontentarsi: nel cassetto c'è sempre la proposta del presidente Inps Boeri di estendere il sistema contributivo a tutte le pensioni.

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