Jobs Act, l'indennizzo salva la maggioranza Ma la guerra è rinviata

Compromesso sull'articolo 18 tra alfaniani e Pd, le opposizioni insorgono e abbandonano i lavori. I sindacati: sciopero generale. Scontro sulla data

S oddisfatti sia il Nuovo centrodestra sia la sinistra del Partito democratico. Persino Maurizio Sacconi e Cesare Damiano, ex ministri del Lavoro che hanno passato un vita su lati opposti della barricata, hanno cantato vittoria quando il governo ha presentato l'emendamento al Jobs Act sull'articolo 18, approvato ieri sera in commissione, senza i deputati di Forza Italia, Lega, Fdi e M5s che hanno anche abbandonato l'aula per protesta.

La formulazione scelta dall'esecutivo per risolvere il nodo dei licenziamenti è che il diritto al reintegro nel posto di lavoro non ci sarà per i quelli economici (un rafforzamento della legge Fornero), sarà possibile per quelli «nulli», (ad esempio motivato da gravidanza o matrimonio) o «discriminatori», ma anche per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato». Di fatto il governo ha recepito la versione del Pd, con qualche concessione al Ncd sulle «specifiche fattispecie». Il partito di Angelino Alfano avrebbe preferito che l'esecutivo non presentasse l'emendamento oppure, in subordine, aggiungesse un «limitati» ai casi di reintegro.

La partita è rinviata ai famosi decreti attuativi che dovranno arrivare entro la fine dell'anno e sui quali è già in corso un braccio di ferro tra le due anime della maggioranza, quella lavorista e quella liberale. Con il rischio per Ncd e per gli stessi renziani che, una volta fuori dai riflettori, la riforma venga riscritta da sindacati e sinistra Pd, nemici giurati di modifiche allo Statuto dei lavoratori e decisamente più forti al ministero del Lavoro di quanto lo possa essere il partito di Alfano.

Situazione di stallo che i due contendenti hanno trasformato in una vittoria. Quella scelta dal governo, secondo il democratico Damiano, è «la stessa formula contenuta nell'emendamento del Pd» che «ricalca puntualmente il testo della direzione del Pd». Per Sacconi il punto chiave del testo è «l'indennizzo economico crescente con l'anzianità di servizio» per i licenziati senza motivo e il reintegro per i disciplinari in «specifiche fattispecie». Quindi la formulazione passata a Montecitorio va bene e a Palazzo Madama, secondo il presidente dei senatori Ncd, non cambierà. In difesa lo stesso premier Matteo Renzi, che vede il Jobs Act come «un provvedimento che non toglie diritti, ma toglie solo alibi» a sindacati, imprese e politici. Il ministro Pier Carlo Padoan dice che il governo andrà avanti con «ferrea determinazione».

Ma che sia un testo aperto a tutte le interpretazioni (e quindi difficilmente valutabile nei suoi effetti concreti), lo dimostrano anche le reazioni della sinistra. Per Pippo Civati il fatto che Sacconi festeggi significa che «noi ci siamo sacconizzati. Il Pd compie un percorso che Berlusconi non era mai riuscito a raggiungere». Sulla stessa lunghezza d'onda Susanna Camusso e gli altri sindacati, che si sono allontanati dal governo dopo l'incontro sul contratto della Pa. Ieri la Uil ha indetto un suo sciopero generale (non quello della Cgil), mentre la Cisl protesta solo per il pubblico impiego.

Anche il presidente del partito Matteo Orfini se la prende con Sacconi, ma per motivi opposti. L'esponente Ncd «era partito dicendo che o era il testo del Senato o non avrebbe accettato... direi che è abbastanza evidente l'esito».

E incassa l'immediata risposta di Sacconi: «Orfini rassegnati! Sono con Taddei a parlare di lavoro e condividiamo il futuro mentre tu difendi il passato». Come dire, anche i renziani di stretta osservanza vogliono una riforma radicale.

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