L'avvocato che processa (in tv) i poliziotti

L'avvocato che processa (in tv) i poliziotti

Dice Gianni Tonelli, aggressivo leader sindacale del Sap: «Quando c'è un poliziotto nei guai, ecco che spunta lui. L'avvocato Fabio Anselmo. È come il prezzemolo. Per Aldrovandi. Per Cucchi. Per Uva». E adesso per Davide Bifolco, il ragazzo di 17 anni ucciso a Napoli la scorsa settimana durante un concitato inseguimento. Anselmo il nemico. Anselmo lo spauracchio. Anselmo che il processo lo istruisce in tv e sui giornali. Lo dilata e lo distribuisce in pillole all'opinione pubblica, iscrivendo i nomi delle presunte vittime nel martirologio della violenza di Stato. Uno stato che fa a pugni con la democrazia e le sue regole, legato nei modi a epoche oscure.

Stefano Cucchi, massacrato secondo l'avvocato di parte civile dalla polizia penitenziaria o dai carabinieri e poi morto al Pertini di Roma. E Giuseppe Uva, scomparso in circostanze drammatiche dopo essere stato ammanettato in piena notte a Varese. Quei nomi sono noti a milioni di italiani e le foto dell'orrore, delle percosse, vere o presunte, degli abusi reali o no, le hanno viste tutti. Lui, un signore garbato di 57 anni, di Ferrara, a sorpresa conferma: «È vero io faccio i processi mediatici. Altrimenti, e questo è stato scritto dai giudici, i miei casi sarebbero o rischierebbero di essere trascurati, dimenticati, archiviati frettolosamente. Sarebbero casi di denegata giustizia». E allora per sfuggire al mulinello che annegherebbe la verità, Anselmo dal suo angolo appartato ma non periferico tesse pazientemente la tela. E chiama in causa una sorta di corte d'assise virtuale in cui compaiono come figure chiave il sociologo Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, e la presidente della Camera Laura Boldrini.

«Lo stesso meccanismo - riprende Tonelli - è già stato riproposto per la vicenda Bifolco. Anselmo dà interviste in cui chiede aiuto a Manconi e mette in moto il circuito mediatico, intanto la Boldrini esprime puntualmente la sua vicinanza alla famiglia. Di solito, al parterre istituzionale seguono gli articoloni e i reportage di Repubblica , Rai3 , del Fatto Quotidiano che come minimo capovolgono le parole degli uomini in divisa. C'è il tentativo di linciare una parte della polizia, malata per definizione». La sentenza, a sentire i suoi detrattori, arriva prima ancora che il dibattimento vero, quello in aula, cominci. Ed è, dev'essere sempre e comunque, un verdetto inesorabile di condanna.

La fama di Anselmo, in un certo senso la sua seconda vita, comincia nel 2005 con la morte proprio a Ferrara di Federico Aldrovandi. Paradosso sorprendente, fu un ispettore della Digos, insomma un poliziotto, a spingere la mamma del ragazzo, disperata, nello studio Anselmo: «Quell'ispettore - riprende lui - sapeva benissimo che io non mollo mai. Avevo vissuto una terribile vicenda familiare di cui non voglio parlare in pubblico. Basterà sapere che ci fu una morte per colpa medica e io ho cercato di ottenere giustizia». Dunque i camici bianchi, prima delle divise. «Da sedici anni io non difendo più un medico». No, Anselmo colpisce chi sbagliato impugnando il bisturi. E ha vinto una sfilza di cause che giravano intorno all'ospedale di Cona (Ferrara), teatro di diversi errori medici e errore in sé. «Un disastro - chiosa lui - dal punto di vista economico, gestionale, amministrativo. Un obbrobrio, per dirla tutta». Anselmo insomma si era fatto una certa fama in città come avvocato capace di sfidare la rete soffocante dei piccoli poteri di provincia, quelli che si ritrovano al Rotary e che si tutelano a vicenda. E la sua dimestichezza con cartelle cliniche, autopsie, corsie è servita per combattere ad armi pari in dibattimenti in cui si parla di pestaggi, di botte date senza pietà e si va avanti a colpi di perizie e consulenze mediche. C'è immancabilmente una versione ufficiale cui si contrappone fatalmente la controindagine sul campo compiuta dal legale e dai suoi collaboratori. Qualcosa che ha nella memoria, nel Dna, la querelle infinita sul caso Sofri e sulla morte di Luigi Calabresi. E prima ancora Piazza Fontana e la defenestrazione di Giuseppe Pinelli. I cassetti chiusi. Le menzogne dell'autorità. Le vergogne dell'istituzione.

Questo è il retroterra culturale che aiuta a capire. «La verità - insiste lui - è che io soffio sul fuoco dell'opinione pubblica perché il controllo da parte dei cittadini è un parametro fondamentale della giustizia. E questo non lo dico io ma la Corte dei diritti dell'uomo di Strasburgo. Del resto ci si divide anche sulle responsabilità della signora Franzoni e di Amanda e Raffaele a Perugia». Tifoserie inconciliabili. Duelli durissimi. La giustizia che va braccetto con la politica e ne viene sporcata. «Ho la tessera del Pd, ma il partito non mi ha mai dato un incarico. Vengo dalla Margherita ma non sono franceschiniano, anche se Franceschini è di Ferrara e non sono nemmeno renziano.

Però Grillo sul suo blog mi ha definito un avvocato con la schiena dritta e mi ha proposto come membro laico del Csm. Una bella soddisfazione». Anselmo sventola la bandiera dei diritti civili e si prepara al nuovo round. Fra microfoni e telecamere.

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