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L'economia "alla cubana" di Landini

Ci sono due notizie cattive e una buona nell'intervista concessa ieri al Corriere dal segretario della Cgil, Maurizio Landini

L'economia "alla cubana" di Landini

Ci sono due notizie cattive e una buona nell'intervista concessa ieri al Corriere dal segretario della Cgil, Maurizio Landini (in foto). Partiamo da quest'ultima, il leader del sindacato di Corso Italia sembra aver abbandonato l'idea della patrimoniale come strumento prioritario per redistribuire i redditi in Italia. La prima notizia cattiva è che è solo cambiato il soggetto d'imposta: dalla tassa sulle rendite finanziarie e immobiliari delle persone fisiche si passa a «un contributo straordinario di solidarietà sui profitti». L'idea è la medesima: se le imprese si avvantaggiano prima della discesa dei prezzi delle materie prime, dovranno simultaneamente «restituire» questo vantaggio al consumatore. L'effetto perverso è lo stesso. La patrimoniale impoverisce gli individui e ne deprime i consumi, quindi meno fatturato per le aziende, meno utili, meno investimenti e meno occupazione. Il contributo sugli extraprofitti (ammesso per assurdo che in un'economia di mercato si possa stabilire se un profitto è «extra») determina gli stessi risultati: meno utili all'inizio meno occupazione e meno reddito alla fine. Non è un caso - e questa è la seconda notizia cattiva - che Landini proponga «un maggiore controllo su prezzi e tariffe». D'altronde, lo dice la matematica: i trasferimenti di reddito provocano sempre un aumento, seppur minimo, dell'inflazione. Secondo quest'impostazione di matrice castrista, i prezzi devono necessariamente essere controllati. Anche a rischio di trasformare l'Italia in una specie di Cuba. All'Avana, infatti, capita che i beni di consumo scarseggino quando i prezzi imposti sono inferiori al loro valore. Landini, però, è persona intelligente. Le sue «esternazioni» si moltiplicano quando la politica - soprattutto a sinistra - è debole e si rarefanno quando al Nazareno e dintorni c'è qualche idea. Si comprende, dunque, la ragione del suo intervento.

Il deserto attorno a lui ne fa de iure la nemesi progressista di Meloni. Al segretario, però, va chiesta una riflessione in più: quando ci si interrogherà sul perché in Europa si sia scelto di svalutare il lavoro senza che nessuno battesse ciglio?

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