Ci sono due numeri da tenere d'occhio domenica prossima: 30 e 20. Sono i due valori a cui guardano con attenzione le segreterie di Lega e M5s. Per Salvini il 30% è la soglia oltre la quale si apre il piano B, l'alternativa all'estenuante alleanza di governo con i grillini, ovvero una maggioranza di centrodestra con Fdi. È uno scenario che è stato messo in conto dal quartier generale del ministro dell'Interno, ma che è condizionato non solo all'eventualità di un boom leghista il 26 maggio ma pure a quella di un exploit elettorale della Meloni (oltre che al via libera del Quirinale per elezioni anticipate ad ottobre). Per il M5s, invece, il punto cruciale è non scendere sotto il 20%, livello sotto il quale si aprirebbe inevitabilmente la crisi non solo della leadership di Di Maio ma del governo di Giuseppe Conte, già nel mirino dai falchi leghisti (vedi Giorgetti). A sei giorni dall'apertura delle urne i sondaggi sono banditi, ma questo non significa che i partiti non li stiano commissionando. E l'ultimo in mano alla Lega, prodotto da un noto istituto di rilevazioni, ha fatto accendere la spia rossa sul cruscotto leghista. Infatti Salvini si mostra molto prudente: «Se l'anno scorso ho preso il 17%, ora, a queste elezioni tutto quello che c'è sopra è già un successo, dal 18, al 19... . Ma andremo oltre e posso solo ringraziare gli italiani» dice intervistato da Quarta Repubblica. Sotto il 30% sarebbe un insuccesso? Risposta: «No». Il modulo all'attacco seguito dal M5s nelle ultime settimane, sparare senza pietà contro la Lega, sembra invece stia funzionando nell'arginare l'emorragia di consensi registrata negli ultimi mesi, anche se il 32% delle politiche 2018 è lontanissimo.
Che succederà dunque il 27 mattina, a urne chiuse e conti fatti? Dal piano B, quello con la Lega sopra il 30% che rompe i ponti con i grillini, magari precipitati sotto il 20%, si tornerebbe al piano A, che poi è lo scenario dato come più probabile: continuare con il governo gialloverde. Se la forchetta tra i due non sarà enorme mancheranno le condizioni per far saltare il banco, Salvini e Di Maio dovranno fare buon viso a cattivo gioco e portare avanti il matrimonio (metafora usata dal leader leghista che si è scelto il ruolo di «marito»). Fonti parlamentari leghiste derubricano le risse degli ultimi giorni come l'ultima coda della campagna elettorale, sicuri che i toni rientreranno dopo il voto. Il riavvicinamento delle ultime ore, con Salvini che smorza le accuse rivolte a Conte da Giorgetti, conferma l'intenzione di non rompere l'asse. Il mantenimento dello status quo verrà giustificato con la retorica della responsabilità, dell'unico governo compatibile con i numeri in Parlamento, del patto sottoscritto con un contratto e onorato fino in fondo (Di Maio ieri: «Questo governo andrà avanti per altri quattro anni. La Lega tornerà a essere meno scontrosa dopo il 26 maggio»). In ambienti M5s si accredita anche un'altra versione sulla volontà di pace di Salvini. E cioè il timore che in un altro esecutivo con la Lega in ruolo trainante, il premier designato potrebbe non essere lui, ma un uomo più di collegamento come appunto Giorgetti, figura più tecnica e più tranquillizzante per i mercati con la finanziaria di fine anno da affrontare. Mentre i leghisti scommettono sul fatto che i grillini vogliano tenersi strette le poltrone di governo che, senza alleanze, difficilmente potrebbero rivedere. I numeri che usciranno dalle urne però cambieranno, se non la maggioranza di governo, certamente i rapporti di forza in quella attuale. Spiegano fonti vicine al leader leghiste che se Salvini uscisse con un margine ampio rispetto al M5s, l'agenda del governo si adeguerebbe di conseguenza. Le priorità leghiste già nero su bianco nel contratto di governo - dalla flat tax all'autonomia alla gestione degli sbarchi -, non potrebbero più essere messe in discussione dai grillini nel tentativo di sabotarle, con una Lega nuovo azionista di maggioranza dell'esecutivo.
Salvini a quel punto avrebbe la forza di porre un aut aut, per esempio sul taglio delle tasse: o mantenete gli accordi o si va a elezioni. A quel punto avrebbe un pretesto per rompere, dando la colpa ai grillini. L'exit strategy perfetta per un matrimonio malriuscito.
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