Una lezione ai poltronari grillini: tradire Salvini non basta a vincere

La maledizione dei Cinque Stelle: perdenti anche con il ribaltone. E, dopo aver "subito" Salvini, ora si trovano al guinzaglio del Pd

Una lezione ai poltronari grillini: tradire Salvini non basta a vincere

In Emilia Romagna ha mosso i primi passi e in Emilia Romagna ha subito una di quelle battute d'arresto da cui è sempre difficile rialzare la testa. Che nel Movimento 5 Stelle qualcosa si sia rotto, è chiaro a tutti da più di un anno e mezzo. Il 32% incassato alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 è acqua passata. Tanto quanto lo sono i trionfi alle comunali a Torino e Roma dove a Beppe Grillo e compagni era riuscita l'impresa di piazzare Chiara Appendino e Virginia Raggi. Adesso non splendono più come un tempo. E in un lento ma costante logorio, già passato il 26 maggio 2018 attraverso la débâcle delle elezioni europee, si trovano a bruciare gli ultimi consensi che gli restano.

Il Movimento 5 Stelle non è finito. Ma sicuramente si trova in un cul-de-sac che difficilmente gli permetterà di intravedere una exit strategy vincente. Quella in cui si trova oggi è la stessa, drammatica posizione in cui era venuto a trovarsi all'indomani delle elezioni europee dell'anno scorsco durante le quali sprofondò al 17%. Allora a mettere sotto scacco matto Luigi Di Maio era stato Matteo Salvini, forte del 34% appena incassato. Oggi il "reggente" Vito Crimi si trova nelle mani del Partito democratico che, dopo aver ribaltato i rapporti di forza con l'alleato di governo, farà di tutto per diventare la guida di questo scassato esecutivo. Ma facciamo un salto indietro nel tempo e analizziamo le dichiarazioni rilasciate a caldo. "Non useremo questo voto per un regolamento di conti interni", aveva assicurato il leader leghista promettendo che non avrebbe mai usato i voti degli italiani "per chiedere mezza poltrona in più" nel governo. Al tempo le frizioni tra i due alleati erano consistenti ma mai quanto quelle che oggi dividono i grillini dai democratici. E poi, prima dell'estate delle trame di Giuseppe Conte e dei colpi bassi dei pentastellati, i livelli di consenso nel Paese erano ben altri rispetti a quelli di cui godono oggi i giallorossi.

Già allora, dal quartier generale dei grillini, era filtrato un certo "sconforto" nella gestione del movimento. Tanto che Di Maio, forse anche solo per inventarsi qualcosa da buttare in pasto ai suoi, aveva accusato la bassa affluenza alle urne ("soprattutto al Sud") e aveva invitato ad avere una maggiore attenzione ai territori. "Restiamo comunque ago della bilancia in questo governo", aveva poi concluso. Tuttavia, il ribaltamento dei pesi all'interno dell'esecutivo e il dilagare di Salvini nell'appeal sugli italiani avevano dimostrato il contrario. Tanto che nel giro di poche settimane erano venuti fuori tutti i problemi. Il leghista era andato per la sua strada finché Conte e i grillini non avevano iniziato a tramargli contro. Poi si era consumato lo strappo.

Per non morire al 17% Di Maio aveva pensato (erroneamente) di attaccarsi alla poltrona e cambiare alleato. Il patto con il Partito democratico gli ha fatto, se possibile, ancora peggio di quello con la Lega. E, a distanza di meno di cinque mesi, si è visto costretto a lasciare la guida politica del movimento e lasciare che i suoi si schiantassero sotto lo sguardo impotente di Crimi. L'attenzione al territorio non c'è stata e i consensi sono pressoché evaporati del tutto. Adesso, in un ovvio déjà vu, si ritrovano a gestire un nuovo ribaltamento di potere con Nicola Zingaretti e i suoi che già passano all'incasso. "È giusto che oggi si usi questo risultato per modificare l'asse politico del governo su molte questioni", ha subito avvertito il vicesegretario dem, Andrea Orlando. Già si torna a parlare di abrogazione dei decreti Sicurezza e dello ius soli per far virare il governo del tutto a sinistra.

Ora i Cinque Stelle potrebbero avere un'arma per riuscire a riprendere in mano il proprio destino: ammettere che sono maggioranza solo nei Palazzi romani e fare un passo indietro

obbligando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a indire nuove elezioni. Ma difficilmente lo faranno. Preferiscono vivere ancora in questo limbo della politica in cui si credono ancora al 32%, come nel 2018.

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