Libia in mano ai tagliagole «Italiani siete a tiro di missile»

Il Paese è nel caos, lo Stato islamico conquista Sirte e ci minaccia sul web L'ambasciata invita i nostri ad andare via. Gentiloni: «Pronti a combattere»

Ora non si scherza più. Ora la bandiera nera dell'Isis sventola sulla Sirte e neppure il nostro governo può permettersi di restare a guardare quanto succede in Libia sperando soltanto nella buona sorte. E così - dopo mesi d'inerzia diplomatica - il ministro degli esteri Paolo Gentiloni prende la parola per denunciare la presenza di un minaccia terroristica non più circoscritta. Una minaccia che potrebbe vederci costretti a «combattere» seppur «nel quadro della legalità internazionale» perchè non «possiamo accettare una minaccia terroristica attiva - avverte Gentiloni - a poche ore di navigazione dall'Italia». La prima dichiarazione di una certa decisione e consistenza sulla questione libica arriva poche ore dopo i tweet con cui un simpatizzante libico del Califfato ricordava all'Italia e agli italiani di essere nel raggio d'azione dei missili Scud.

Il «cinguettio» è poco più d' una battuta perché i rugginosi missili sovietici, riesumati forse dai bunker di Gheddafi, ben difficilmente riusciranno, nonostante la portata di 1250 chilometri, ad abbandonare le rampa di lancio. Il tweet da però l'idea del clima che si respira nell'ex colonia. O meglio nella nuova colonia del Califfato. Ma a farci capire con ancor maggior efficacia che aria tiri da quelle parti contribuiscono gli avvenimenti della Sirte, la terra natale di Muhammar Gheddafi trasformatasi nella sua tomba. Su quel rarefatto paesaggio di rovine, oasi e grandi spazi sventola da ieri la bandiera del Califfato. E prende corpo l'ultima maledizione del Colonnello. «Dopo di me - disse il rais in fuga da Tripoli - farete i conti con Al Qaida». Nella realtà, la nemesi è persino peggiore dell'anatema. Al posto della logora Al Qaida avanza infatti lo Stato Islamico. Da ieri gli uomini del califfato rivendicano la conquista di un lembo di terra controllato fino a poche ore prima da «Fajr», la composita coalizione jihadista che ad agosto occupò Tripoli costringendo alla fuga il governo legittimamente eletto.

Da ieri le televisioni della Sirte, occupate dagli uomini dell'Isis, trasmettono i proclami di Al Bagdadi e gli ultimatum con cui s'intima ai sostenitori di «Fajr» di battere in ritirata entro domenica. E neppure i 460 chilometri di deserto che dividono Tripoli dalla nuova roccaforte del Califfato rappresentano una garanzia. Ieri i militanti dell'Isis hanno fatto la loro comparsa a Surman, sessanta chilometri a ovest della capitale. Nella cittadina, sulla strada per la Tunisia, i militanti dell'Isis hanno distribuito volantini inneggianti alla morale islamica diffidando le donne dal truccarsi, dall'indossare vestiti attillati e dal lavorare al fianco di colleghi maschi.

E ad acuire la tensione contribuiscono le notizie raccolte da Il Giornale secondo cui in Tunisia già opererebbe un'unità delle forze speciali inglesi incaricata di sondare il terreno per un possibile intervento. Una presenza che si affianca a quelle dei reparti francesi presenti da tempo al confine meridionale con l'Algeria. Insomma mentre Matteo Renzi rientrava dal vertice europeo di Bruxelles senza aver speso mezza parola - al di là di quelle regalate alla stampa - sulla situazione libica i nostri alleati sembrano già pronti a muoversi. E noi, nonostante gli interessi strategici e un'ineguagliabile conoscenza del paese rischiamo ancora una volta di ritrovarci tagliati fuori da tutto. L'Eni, nonostante gli italiani presenti esclusivamente sulle piattaforme siano ormai meno di una decina, continua a dichiarare una produzione di gas e petrolio in linea con i 250mila barili al giorno previsti dai piani di produzione.

Ma tutto è ormai aleatorio. E anche l'ambasciata potrebbe ritrovarsi costretta a seguire il destino di quella di Saana travolta dal caos della guerra civile yemenita e costretta ieri a chiudere i battenti e andare via.

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