Le immagini ci sono e sono abbastanza nitide. Il quartetto è stato ripreso da uno sciame di telecamere disseminate sulle spiagge fra Rimini e Riccione. Di spalle, ma poi anche frontalmente.
Gli stupratori maghrebini dovrebbero avere le ore contate, ma gli investigatori invitano alla prudenza. C' è una pista, ma gli elementi vanno sviluppati e alla fine si devono portare sulla bilancia prove solide. Anzi, a prova di bomba. Un arresto, poi sconfessato in seconda battuta dal tribunale del Riesame, si trasformerebbe in un autogol clamoroso. E allora meglio procedere con i piedi di piombo, accumulando tutto quello che può servire: il Dna trovato sui preservativi utilizzati per la seconda violenza, quella compiuta ai danni della transessuale peruviana, una mezza impronta digitale, bottino della meticolosa analisi della scena del crimine, le «foto» catturate dagli occhi a infrarossi. Si valutano i racconti di due testimoni che hanno incrociato i criminali nel corso del loro raid, nella notte fra venerdì e sabato. Ancora si esaminano le celle telefoniche, per capire chi era nella zona di Miramare nelle ore terribili del massacro.
La ragazza polacca sta meglio, ma non è facile tornare alla normalità dopo quello che è successo. E le parole consegnate a chi la interrogava sono un documento drammatico della violenza subita: «Uno di loro mi ripeteva: i kill you, i kill you», prima di accanirsi con furia bestiale sul corpo della sventurata. Lei e il suo compagno all'inizio della prossima settimana potrebbero fare ritorno in Polonia, ma prima di partire i due chiedono il rispetto totale del proprio dolore. E la giovane si è raccomandata infinite volte ai medici e ai poliziotti che l'hanno sentita: «Per favore, non fate il mio nome, non voglio essere riconosciuta».
Richieste sacrosante, mentre si mette sotto pressione il mondo degli spacciatori che gravitano fra Rimini e Riccione. Potrebbe essere l' ultimo passaggio dell'inchiesta: quello decisivo ma anche il più rischioso. È il problema numero uno per la polizia di Rimini, affiancata dai Maigret dello Sco arrivati da Roma. Dare un nome a quelle facce, tre più chiare e una più scura, immortalate dalle apparecchiature elettroniche. Non è facile districarsi fra nomi ballerini, identità fantasma, alias che trasformano l' avvicinamento ai colpevoli in un viaggio dentro un labirinto. Anche la transessuale sudamericana li ha visti e pure lei quando ha potuto esaminare i cd ha esclamato: «Sono loro».
Ma certe facce si assomigliano tutte, di notte ancora di più, di più ancora quando il perimetro dell'inchiesta è il mondo degli irregolari e dei clandestini.
Ottimismo e pazienza. Ci sono le camminate, una in particolare anomala, le posture, l'abbigliamento. Fossero stati italiani, il finale sarebbe probabilmente arrivato in un lampo. Ma la notte di Rimini, come di tante altre località italiane, è il mondo degli sbandati e dei delinquenti che hanno sfruttato le maglie larghe di un sistema per costruirsi un nido e per fortificarlo. Si può rubare una carta d'identità, si può stracciare un passaporto, si può stracciare un decreto di espulsione. Non solo: alcuni sono «vergini», come si dice in gergo, insomma sconosciuti alle forze dell'ordine che non li hanno mai fermati e schedati. E bisogna vedere a quale girone, fra i tanti, appartengono i quattro. Un colpo di fortuna, a volte un controllo casuale, ha risolto veri e propri rompicapi.
La storia di Igor, il russo che in realtà è un serbo, è una dimostrazione empirica del caos che, come una nebbia, avvolge questo mondo rendendolo quasi impenetrabile. Il finale però dovrebbe essere diverso. Igor si è dissolto nel nulla, che svanisca un poker intero di pericoli pubblici non è nemmeno immaginabile.
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