
In un angolo della Montecitorio deserta di metà settembre l'ex sindaco di Bologna Virginio Merola spiega perché Elly Schlein si è tuffata a capocollo nella battaglia referendaria contro la riforma della giustizia. "C'è dietro un'intuizione - osserva -: ormai esistono solo gli elettori delle estreme, sono i soli che vanno a votare, di quelli che stanno in mezzo non frega niente a nessuno. Per cui ce la potrebbe anche fare contando sull'alta astensione che nei referendum è un dato fisiologico. Il problema è che nel mondo non sono pochi quelli che odiano la democrazia, meglio non puntare sull'astensione. E poi in Italia c'è sempre stato il fascino dell'uomo forte, per cui se poi quelli che stanno nel mezzo vanno a votare può succedere di tutto".
I pericoli per la democrazia sono quelli evocati dalla Schlein nel suo intervento contro la riforma. Un intervento duro con il quale si candida, nei fatti, a capeggiare la battaglia referendaria e rivendica il ruolo di anti-Meloni. Una partita ad alto rischio nella quale si gioca la leadership della coalizione che contenderà il governo al centro-destra alle prossime elezioni politiche. Del resto è inevitabile. Basta guardare alla maratona elettorale che c'è all'orizzonte: prima il voto nelle Marche, unica regione - salvo sorprese - sulla carta contendibile; poi, il referendum a primavera. Un referendum senza quorum il cui esito sarà determinato soprattutto dall'elettorato militante. Si tratta di un'operazione nel solco della teoria di Dario Franceschini secondo la quale non bisogna puntare più sulle candidature di "centro", ma su candidati "con una forte personalità alternativa alla destra".
È tutta qui la scommessa della Schlein e il referendum che per tradizione interessa solo gli elettori militanti è il terreno adatto per mettere in pratica la nuova filosofia. O almeno per verificarla. Solo che se la tesi si dimostrasse errata la Schlein potrebbe rimetterci molto, se non tutto: l'esempio di Renzi, che per la sconfitta al referendum mollò il governo, è ancora vivido; qui finirebbe nel cestino la sua ambizione di guidare "il campo largo". "Rischia - ammette Stefano Graziano, capogruppo del pd in Vigilanza - ma prima o poi lo show-down doveva farlo e se riesce a trasformare il referendum sulla giustizia in un referendum sulla Meloni potrebbe anche vincerlo. Altrimenti si vede".
E in "quel si vede" ci sono le altre ragioni che stanno spingendo la Schlein a fare "all-in". C'è troppo movimento sul nome del candidato premier nel "campo largo". La leader del Pd puntava sullo schema che ha funzionato finora nel centro-destra: esprime la premiership il candidato del partito che prende più voti nella coalizione. Solo che incombe la possibilità che venga approvata una nuova legge elettorale che prevede l'indicazione del nome del premier. Un meccanismo che si porta dietro automaticamente le "primarie" per la premiership, senza contare che ci sono molti (da Bettini a Franceschini) che caldeggiano l'uso delle primarie in ogni caso.
Quindi, a ben vedere, la candidatura della Schlein è nelle mani della Meloni (se spingerà o meno sulla legge elettorale) o dei maggiorenti del partito. Una condizione infelice, motivo per cui la segretaria ha deciso di fare la sua partita, di indossare i panni del "candidato estremo" marcando le differenze con il profilo del candidato "centrista". E chi meglio di Silvia Salis (foto) può rappresentare l'altro modello? Ieri la segretaria del Pd - dicono i bene informati - ha fatto sapere alla sindaca di Genova di non aver gradito per nulla (in privato ha usato un linguaggio colorito) la ripubblicazione con grande foto sul sito di "Vanity fair" di un'intervista della Salis del numero di agosto in cui capeggia la frase: "la sinistra deve identificare una persona che può vincere, e riconoscerla come leader". Un endorsement nel giorno del compleanno della Salis.
Un modo per marcare la distanza tra due personalità agli antipodi: da una parte "Elly" che balla al gay-pride, che sposa la crociata dei giudici, che gira con il megafono; dall'altra "Silvia" che si presenta come "madre, cattolica e moglie", che aveva pensato di candidarsi a sindaco anche con Forza Italia (da quelle parti arrivano sempre tardi all'appuntamento), che ha un marito regista, che festeggia il suo compleanno nell'ex Palazzo della borsa con un mix sinistra "piaciona". Sono distanti. Appunto agli antipodi. Sono due modi di prefigurare la coalizione. E due filosofie che hanno scelto le loro eroine: l'"estrema" e la "centrista", pardon "la moderata".