Luigi lo "scugnizzo" inesperto che ha già scontentato tutti

Il grillino ha inanellato una lunga serie di errori e si è incartato nelle trattative. E infatti Grillo è tornato

Luigi lo "scugnizzo" inesperto che ha già scontentato tutti

L a Bbc in un’intervista lo aveva presentato come uno «studente universitario ritirato, che lavorava in una start up del web», un trentunenne che deve convincere di non essere «inesperto per guidare un paese». I due mesi di tira e molla dopo il voto non hanno rafforzato l’immagine di Luigi Di Maio come leader, tanto che iniziano ad affiorare i dubbi se non sia troppo inesperto per guidare non l’Italia, ma il M5s.

Gli ultimi sondaggi sulla popolarità dei capi di partito lo danno in caduta verticale rispetto al mese scorso. Le due sconfitte regionali rimediate nel frattempo, in Molise e Friuli-Venezia Giulia, se non valgono come prova del calo di credibilità del M5s anche a livello nazionale, certo sono un segnale da non trascurare per Di Maio, che si sta giocando in queste settimane la partita fondamentale per la sua carriera politica. Mentre Matteo Salvini ha gestito con abilità la complicata fase delle trattative, il grillino si è incartato più volte, aprendo forni in contemporanea senza chiudere mai la partita.

L’ex governatore lombardo Roberto Maroni, in un colloquio con il Corriere lo definisce «uno scugnizzo», più che un leader. Un giudizio severo, dettato anche dalla speranza di Maroni che il segretario federale della Lega non ceda agli inviti di Di Maio per sfasciare il centrodestra. Ma gli errori fatti dal candidato premier M5s nella strategia per arrivare a Palazzo Chigi sono evidenti. Primo, aver proposto un accordo di governo sia alla Lega che al Pd, quindi a due partiti su posizioni opposte su svariati temi (dall’immigrazione all’Europa, dalla legge Fornero allo ius soli e via elencando), come se fosse indifferente governare con Salvini oppure con la Boschi. Invece per l’elettorato grillino non è affatto indifferente, come dimostra il focolaio di rivolta scoppiato sui social quando Di Maio ha dichiarato chiuso il forno con la Lega (poi riaperto) e invitato i vertici del Pd (già definiti «assassini della nostra gente») a unirsi a lui. Senza contare poi che in questa duplice manovra i temi della campagna elettorale del M5s sono scomparsi, per riadattarsi di volta in volta al possibile alleato di turno. Un programma modificabile a seconda delle esigenze, ed in effetti - come ha scoperto il Foglio -, è successo proprio questo: cancellato e modificato in corsa.

Altro errore di inesperienza, aver dato l’impressione che la priorità assoluta per lui fosse quella di sedersi sulla poltrona di primo ministro, mettendo come conditio sine qua non per un qualsiasi contratto di governo la premiership per il M5s (leggi: per sé). Di Maio ha impiegato due mesi esatti per rendersi disponibile a fare un passo indietro e cedere il posto a Palazzo Chigi ad altri. Collegato a questo, c’è l’incredibile ondeggiamento di Di Maio tra un principio e il suo opposto, a seconda della convenienza del momento. No all’euro, sì all’euro, no alla Nato, sì alla Nato, prima filo Russia, poi filo Usa. Altro sbaglio tattico, la politica dei veti. Con lo stop imprescindibile a Berlusconi, per non cedere consenso con l’ala dura grillina, Di Maio ha scommesso sulla scissione del centrodestra ma finora ha perso. Ha poi dato l’impressione di non saper scegliere la direzione, rimanendo a metà strada tra l’intransigenza del passato («mai alleanze») e gli inevitabili compromessi che lo stallo richiede.

Non è un caso che nelle ultime ore sia tornato in prima linea Beppe Grillo, entrato a gamba tesa proprio su Di Maio con il referendum sull’euro. Non è un mistero che Grillo gli preferisca Di Battista. Che aspetta senza fretta.

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