Fausto Biloslavo
La prima donna pilota dell'aeronautica militare afghana ha chiesto asilo politico negli Stati Uniti per le minacce di morte dei talebani. Una sconfitta del capitano Nilofar Rahmani, 25 anni, che voleva dare l'esempio alle sue coetanee costrette a nascondersi sotto il burqa. E un cocente fallimento per l'Occidente, dopo 15 anni di intervento in Afghanistan contro l'oscurantismo integralista. Almeno il capitano Rahmani è ancora viva e continuerà a volare: cinque innocenti impiegate dell'aeroporto di Kandahar, l'ex capitale dei talebani, sono state vigliaccamente uccise il 17 dicembre sulla strada per lo scalo. La loro unica colpa è avere osato lavorare a contatto con tutti, compresi gli uomini.
L'Afghanistan è ancora all'anno della pietra per i diritti delle donne. La storia della prima pilota militare lo dimostra. «Ho sempre sognato di volare e di farlo servendo il mio Paese», racconta l'ufficiale. La prima afghana ai comandi di un aereo militare gira con la tuta color sabbia, simile a quella dei commilitoni maschi, un velo nero sul capo e gli occhiali Ray Ban degli aviatori. Da piccola è stata ispirata dalla figura di due donne pilota in servizio ai tempi dell'invasione sovietica, quando il gentil sesso in divisa girava per Kabul addirittura con rimmel e rossetto.
Subito dopo i 18 anni la giovane Rahmani si arruola e nel 2012 spicca il volo da sola, per la prima volta, ai comandi di un Cessna. Al battesimo del volo una foto la ritrae festeggiata da due donne pilota americane. In Afghanistan circola la voce, irreale, che in realtà sono uomini, decisi a convertire l'afghana al cristianesimo. I talebani cominciano a minacciarla con telefonate minatorie: «Lascia perdere o ti ammazziamo». Lei non demorde e si brevetta come capo pilota dell'aereo di trasporto militare C 208. Solo perché donna ha il divieto di imbarcare caduti o feriti dell'esercito afghano. Il capitano Rahmani disubbidisce agli ordini per mettere in salvo un manipolo di soldati colpiti dai talebani. Al posto di un encomio i commilitoni e i superiori le fanno terra bruciata attorno. I talebani le recapitano la «condanna a morte». Il testo, firmato da una delle fazioni più estremiste annidate in Pakistan, non lascia scampo: «L'Islam ha istruito le donne a non lavorare per gli americani. Se continui sarai responsabile della distruzione di te stessa e della tua famiglia». Il riferimento esplicito è al proiettile in testa che si è beccata Malala Yousufzai, l'adolescente quasi uccisa dai talebani, insignita dal premio Nobel per la pace.
Rahmani e i suoi genitori devono scappare, per un periodo, in India. Il padre perde il posto e la sorella viene cacciata dal marito. Altri familiari la attaccano convinti che bisogna «lavare l'onta del disonore» della prima donna pilota afghana.
Il giovane capitano tiene duro e continua a volare fra mille difficoltà. Lo scorso anno il Dipartimento di Stato americano le consegna il premio «Donne coraggiose». La first lady, Michelle Obama, durante la cerimonia spiega che «Rahmani incoraggia altre giovani donne a seguire le sue orme».
Negli ultimi 15 mesi segue l'addestramento per pilotare i C 130 negli Stati Uniti.
Alla fine del corso, il giorno prima del suo rientro in patria, chiede asilo politico. Il governo di Kabul grida al tradimento, ma la prima donna pilota afghana non ha dubbi: «Le cose non stanno cambiando» in meglio, «ma anzi, vanno sempre peggio. Temo per la mia vita».www.gliocchidellaguerra.it
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