Il "Made in Italy" dimenticato

Il "Made in Italy" dimenticato

Gli aeroporti italiani hanno recentemente vissuto un'altra giornata campale con l'ennesimo sciopero indetto dai sindacati sui tanti nodi da risolvere, a cominciare dal futuro dell'Alitalia che, in attesa dell'ultimatum del 15 giugno sulle offerte d'acquisto, continua ad essere sospesa nella nebbia più fitta. Leggendo i «flash» d'agenzia che raccontavano l'ennesima stazione della «via crucis» di quella che era la nostra compagnia di bandiera, ho pensato ad un'altra notizia di questi giorni, che riguarda Jeff Bezos: il fondatore di Amazon ha appena dato il via alla costruzione di un aeroporto «ad hoc» per la propria azienda che servirà a migliorare l'efficienza delle consegne del colosso statunitense. L'«hub» dovrebbe essere operativo nel 2021, con duecento voli al giorno e duemila addetti.

I due fatti non sono collegati tra loro ma servo a dimostrare un fatto incontrovertibile: oggi più che mai l'industria di casa nostra sembra sommersa dai lacci e lacciuoli cosparsi dal governo gialloverde che rischia di affossare le capacità imprenditoriali di quelli che una volta venivano chiamati «sciùr Brambilla». E ha fatto bene il presidente Vincenzo Boccia a denunciare la situazione di stallo del «made Italy» all'assemblea annuale di Confindustria. In questi mesi ci siamo dilungati sui presunti pericoli della «via della seta» con una Cina in grande espansione, ma, in realtà, la concorrenza è oggi più che ma globale. Un esempio? Mentre noi ci abbiamo messo 18 anni per costruire il raddoppio dell'autostrada Milano-Brescia, per non parlare dei lavori della Tav, gli americani impiegano appena settecento giorni per costruire un nuovo aeroporto che è pure privato. Con questi chiari di luna, insomma, tutto diventa per noi una conquista spaziale: se non cambierà la musica, chi avrà più voglia di investire massicciamente dalle nostre parti? In tal senso, aveva perfettamente ragione John Kennedy quando diceva: «La vera sconfitta non è perdere, ma è perdere la convinzione che si possa vincere».

E per capire meglio la situazione, basta esaminare le cifre degli investimenti in «venture capital» che dovrebbero essere la benzina del «made in Italy»: se negli Stati Uniti, a cominciare dalla Silicon Valley, tali investimenti hanno raggiunto, l'anno scorso, i 130 miliardi di dollari, in Italia, fanalino di coda del Vecchio Continente, hanno superato a malapena il miliardo di euro: un abisso.

Di questo passo, investire sul futuro diventerà un'impresa folle in quello che è ancora chiamato il Belpaese. Ma ricordiamoci cosa diceva Steve Jobs, uno che di rischi se ne intendeva: «Solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero».

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