Di chiacchiera in chiacchiera s'è fatto tardi, è l'ora del conto. L'Europa ce lo sta mettendo nero su bianco, al netto delle parole. Sarà salatissimo, senza che la strategia dei cinguettii di Renzi abbia cavato ragni dal buco, profondo, che si preannuncia per le nostre tasche.
Il dettaglio si vedrà strada facendo, ma dalle bozze in circolazione del Def (Documento di programmazione economica e finanziaria), che il governo varerà venerdì prossimo, emerge il primo dei dati da allarme rosso. Si va verso un riordino della tassazione locale, che assorbirà le già mal gestite Imu e Tasi, più balzelli locali vari, per confezionare una «local tax» comunale che diventa, per l'ennesima volta, la discarica di una finanza pubblica rimasta allo sbando, che prende con la sinistra (enti locali) ciò che a parole toglie con la destra (il governo centrale). Testimonianza definitiva dell'inefficienza di un esecutivo che, al netto delle fandonie del premier (leggi: accorta politica basata sulla comunicazione), non si discosta affatto dagli scarni risultati di quelli precedenti.
Prima di addentrarci nella selva oscura dei conti da impallidire - che in sede Ue fanno ritenere l'Italia caso clinico assai più compromesso di quello greco -, vale la pena di fare una premessa sulle riforme di Renzi, ovvero sul reale stato delle cose. Se si chiede a un fan quale sia il punto di forza di Renzi, dirà senz'altro: «È un governo che fa le riforme». Più correttamente, le ha incardinate in fretta e furia per poter usufruire delle flessibilità garantite dall'Europa (un bonus dello 0,5 per cento sul Pil, pari a circa 7/8 miliardi). Tra le riforme, però, da tempo c'è quella della legge elettorale, di cui all'Europa importa men che zero. Come si spiega? Risponderà il fan(tomatico) sostenitore renziano: «Per avere un Parlamento che non blocchi le riforme». Il discorso a questo punto comincia a chiarirsi, perché la Ue garantisce flessibilità per le riforme solo a patto che abbiano effetti positivi a lungo termine sul bilancio, che rafforzino il potenziale di crescita, che vengano completamente attuate. La controprova dell' Italicum dimostra perciò nei fatti che il governo non ha attuato sul serio alcuna riforma; che confida di poterlo fare solo minacciando il ricorso alle urne; che l'unico monitoraggio sulle riforme possibile - quello sul Jobs Act , da aprile a giugno - rischia di farci perdere pure il treno della flessibilità Ue.
Passando ora alla disamina dei conti, il punto chiave sta nella clausola di salvaguardia: la regola che prevede un aumento automatico dell'Iva e delle accise se non si recuperano i 6,5 miliardi l'anno previsti. Per scongiurare un rincaro dell'Iva che avrebbe effetti disastrosi sull'economia, il governo ha assoluto bisogno di 16/17 miliardi di euro in più di quanto previsto (senza a questo voler aggiungere il Fiscal compact , cioè la costante riduzione del deficit, che da solo varrebbe 38 miliardi). A tal fine, il ministero dell'Economia propone dieci miliardi di tagli, per lo più incentrati sulla riduzione delle società partecipate locali, sulla riduzione dei bonus fiscali, sulla stretta sulle pensioni di invalidità, sulla solita promessa di minori acquisti per la Pa (ma è sparito il piano dei tagli di Cottarelli).
Palazzo Chigi ha preso tempo, spera ancora di poter innalzare il rapporto deficit-Pil fino al 2,9 per cento, pensa al riordino degli incentivi per le imprese e al piano delle privatizzazioni, oltre a poter usufruire dei 6 miliardi di risparmi derivanti dal calo dello spread . La coperta è sempre corta e nulla viene escluso, se non una tassa sulle parole a vanvera di Renzi. L'unica che potrebbe davvero aiutarci a risalire la china.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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