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Mascherine farlocche e affari. Arcuri graziato dalla Procura

Niente peculato né corruzione, l'ex commissario rischia il processo solo per abuso d'ufficio. Lui gongola: mi difenderò

Mascherine farlocche e affari. Arcuri graziato dalla Procura

Aver fatto circolare mascherine farlocche in piena pandemia non è reato. Non per l'ex commissario all'emergenza Covid Domenico Arcuri né per la Procura di Roma, che ieri ha annunciato la chiusura delle indagini aperte nel 2019 sull'invasione delle mascherine cinesi accreditando ad Arcuri la più debole delle ipotesi di reato ipotizzate. Niente corruzione, niente peculato ma solo una richiesta di rinvio a giudizio per l'abuso d'ufficio (mancata applicazione di un Regio decreto del 1923). L'ex commissario se la ride, avverte i pm («il mio diritto di difesa sarà intransigente»), parla di accuse «particolarmente fragili e incoerenti» e ribadisce tramite il suo ufficio stampa che il suo comportamento e quello dell'intera struttura commissariale «è sempre stato conforme al rispetto della legge e delle esigenze della collettività in un momento particolarmente drammatico».

Tanto rumore per nulla? Vedremo. Quel che è certo è che - sebbene fossero fuori norma - milioni di mascherine, dalle semplici «chirurgiche» alle Ffp2 e Ffp3, sono state acquistate con fondi pubblici da 3 consorzi cinesi per 1,25 miliardi di euro, con un impatto sull'impennata dei contagi in piena pandemia ancora tutto da dimostrare.

Il cuore dell'inchiesta ruota intorno al giornalista Mario Benotti e alla maxi provvigione per l'acquisto di 801 milioni di mascherine, cui è contestato il traffico di influenze illecite. Pesante anche l'accusa ipotizzata contro Antonio Fabbrocini, responsabile unico del procedimento per la struttura commissariale, accusato di frode nelle pubbliche forniture, falso e abuso d'ufficio.

Come è possibile che nonostante i controlli dell'Agenzia delle Dogane milioni di dispositivi di sicurezza definiti persino «pericolosi per la salute» siano finiti in corsia? In parte è merito del declassamento a «mascherina di comunità» di alcuni dispositivi con marchio CE visibilmente contraffatto grazie a un'autocertificazione prevista dal decreto Cura Italia dello stesso Conte e da un protocollo interno delle Dogane. Tanto che la stessa Procura aveva sottolineato la disinvoltura di certi «pagamenti di dispositivi di protezione, della qualità dei quali nulla ancora si sapeva, col rischio di acquistarne di inutili». Come sappiamo molto è dipeso dalla mancata applicazione del piano pandemico (fermo al 2005, in parte applicato sebbene mai aggiornato da allora) e dalla completa assenza di stoccaggio di mascherine, Dpi e antivirali, su cui indaga la Procura di Bergamo guidata da Antonio Chiappani.

Ma come è emerso grazie ad alcune inchieste giornalistiche c'è un dossier, finito in Procura a Roma, nel quale dalle Dogane sarebbe stato segnalato per tempo all'esecutivo guidato da Giuseppe Conte l'esistenza di una speculazione sulle mascherine farlocche, soprattutto quelle in arrivo dalla Cina. Un documento datato 22 aprile con un elenco di fornitori cinesi «attendibili» è rimasto lettera morta come il piano pandemico. Al Giornale risulta anche che per almeno un paio di mesi (luglio e agosto 2020) i controlli sulle mascherine acquistati da Arcuri sarebbero stati «congelati» su input dello stesso Conte, che ad Arcuri ha garantito una sorta di salvacondotto amministrativo sulla gestione della pandemia. C'è anche da chiarire ancora il ruolo dell'avvocato Luca di Donna, che secondo alcune testimonianze chiedeva tangenti agli imprenditori interessati a vendere mascherine all'organismo commissariale grazie ai suoi rapporti con Conte, confermati dallo stesso ex premier. Insomma, i destini di Arcuri e Conte appaiono maledettamente intrecciati.

Simul stabunt, simul cadent.

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