Ha, per una vita, teorizzato la secessione. Ha condotto su Radio Padania una trasmissione intitolata «Mai dire Italia», da eurodeputato ha chiesto l'abolizione della Festa della Repubblica parata militare compresa, ha rifiutato di celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia, del Tricolore ha detto «non mi rappresenta». Poi si è convertito. L'ha fatto così, da un giorno all'altro, come nulla fosse. Non un congresso, una Bad Godesberg, una Bolognina. E neanche un'intervista. Senza nulla spiegare, Matteo Salvini è passato dal secessionismo al nazionalismo, che è come dire dal fascismo all'antifascismo (o viceversa), dal comunismo alla liberaldemocrazia, dall'ateismo al cattolicesimo. È possibile sia stato folgorato come Paolo di Tarso sulla via di Damasco. Più probabile che, come l'Enrico IV della famosa Parigi val bene una messa, abbia cambiato bandiera spinto non da una fede ritrovata ma da una convenienza politica rimodulata. Al netto della retorica «sovranista», infatti, dopo dieci mesi di governo gialloverde è legittimo chiedersi cosa abbia concretamente fatto Matteo Salvini per difendere la sovranità e l'interesse della Nazione.
La risposta è che ha predicato bene ma ha razzolato male e spesso e caduto in contraddizioni evidenti. Due esempi, il primo attiene all'interesse economico e geopolitico, il secondo al primato culturale. L'Italia si avvia ad essere l'unico paese fondatore dell'Europa, nonché l'unico del G7, a sottoscrivere un accordo strategico strutturale con la Cina. Telecomunicazioni, porti, banche, aviazione civile... Sono una cinquantina le materie comprese nel misterioso memorandum sottoscritto tra Roma e Pechino che passa sotto il delizioso nome di Via della seta. Salvini recita la parte del leader recalcitrante, ma il principale tessitore di quell'intesa è il sottosegretario leghista allo Sviluppo economico Michele Geraci, non a caso detto «il Cinese». Due parti in commedia, parti incompatibili.
Incompatibili come la proposta di legge del leghista Morelli per obbligare le radio a trasmettere musica italiana per un terzo della propria programmazione e la contrarietà espressa dalla Lega alla direttiva europea per tutelare gli autori italiani dallo strapotere dei giganti del web che gli negano il copyright. Sono solo due casi, due tra i tanti. Due casi che fanno di Matteo Salvini non un san Paolo, ma un Enrico IV.Andrea Cangini
*senatore di Forza Italia
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