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La memoria corta di Giannini sul Fini-gate: "Andava denunciato", ma lui lo difendeva

L'ex vice di Repubblica attaccava la "macchina del fango" sui Tulliani

La memoria corta di Giannini sul Fini-gate: "Andava denunciato", ma lui lo difendeva

«Troppo facile sparare contro Gianfranco Fini» per gli affari dei Tullianos «adesso che non conta più niente», bisognava avere il coraggio di farlo quando era potente, quando da terza carica dello Stato «aveva in mano il Paese», ammonisce tutti su La7 l'ex vicedirettore di Repubblica Massimo Giannini. Il giornalista a lungo vice di Ezio Mauro ed oggi tornato al quotidiano del gruppo Espresso come editorialista, riesce nell'impresa di fare due volte la morale sul caso Fini. Una morale diametralmente opposta, però, nel primo e nel secondo caso. Mentre oggi Giannini accusa il sistema dell'informazione di non aver «denunciato allora l'evidente abuso di potere di Gianfranco Fini» (la vicenda Montecarlo, le pressioni in Rai), quando scoppiò il caso Fini proprio lui era in prima linea per accusare di killeraggio chi lo faceva (come è anche stato ricordato in diretta dall'ex direttore Rai Guido Paglia e da Gian Marco Chiocci autore dello scoop su Montecarlo).

In quell'estate del 2010, quando il Giornale uscì con l'inchiesta su Fini, proprio Repubblica, e proprio il suo vicedirettore Giannini, si schierarono in difesa di Gianfranco Fini, impegnato in una guerra politica con Berlusconi, nemico numero uno del quotidiano di De Benedetti. Leggiamo cosa scriveva Giannini: «È la berlusconiana fabbrica del fango, che attraverso l'uso scellerato dei giornali di famiglia e l'abuso combinato di servizi e polizie sforna dossier avvelenati contro amici e nemici del presidente del Consiglio. Da qualche giorno, com'era ovvio dopo la sacrilega rottura umana e politica con il padre-padrone del Pdl, il fango ha ricominciato a sommergere copiosamente Gianfranco Fini per la vicenda del famigerato appartamento di Montecarlo ereditato da Alleanza nazionale, rimesso sul mercato e poi finito nella disponibilità del cognato dello stesso presidente della Camera». Giannini, che adesso si duole perché i comportamenti dell'allora presidente della Camera «bisognava denunciarli allora», non aveva dubbi sulla correttezza di Fini e sulla pretestuosità dei dubbi sollevati dalla «macchina del fango» di destra. «Nel metodo, diciamo subito che Fini ha compiuto un gesto di responsabilità, onorando il ruolo che ricopre e cercando di chiarire fin da subito tutti i punti della vicenda» ammirava Giannini, in quei giorni finiano ad honorem. E vai con i violini: «Fini dà prova di grande senso dello Stato. Equilibrio politico, rispetto del potere giudiziario, disponibilità a fare luce: così si comporta un uomo delle istituzioni, quando è in gioco l'onorabilità della sua carica e la trasparenza dei suoi comportamenti. Già qui si coglie l'abisso culturale e temperamentale che separa il presidente della Camera dal presidente del Consiglio». Insomma, «nel merito della vicenda, le precisazioni di Fini sembrano sufficienti a sgombrare quasi completamente il campo dagli equivoci e dai dubbi». Al massimo, concedeva Massimo, «si può dire che il presidente della Camera sia stato un po' naif, visto l'iniziale coinvolgimento nell'affare del fratello della sua compagna. Ma questo, al momento, sembra essere tutto».

Il vero scandalo non era Fini, assicurava il vicedirettore, ma il Giornale che aveva svelato gli affari della famiglia Tulliani-Fini.

Invece non bisognava denunciare Fini, bensì «le operazioni di killeraggio mediatico e politico dell'house organ del premier», «la fabbrica del fango che sta macinando Fini», un povero innocente «infangato, delegittimato, distrutto». Ci fosse stato Giannini al posto di Giannini, non lo avrebbe mai scritto.

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