I grandi rivoluzionari sanno sempre da dove partono (esilio, prigionia, campi di guerriglia) e mai dove arriveranno. Dimostra di avere le idee più chiare Alessandro Di Battista, il Che Guevara de noantri, che ha subito capitalizzato i 16.718 chilometri percorsi sui bus più o meno sgangherati dell'America Latina. L'ultimo autocar su cui è salito lo ha lasciato in via Mecenate a Milano, giusto il tempo di farsi dare un badge Rai e accomodarsi sulla poltrona bianca di Fabio Fazio a Che tempo che fa. Ecco le rivoluzioni che diventano un pranzo di gala, l'occasione di mollare i bermuda per sistemarsi nel salotto democratico-buonista che piace alla gente che piace. Un abito blu slim, una camicia bianca impeccabile, basetta scolpita e capello sfrangiato. Bello salire al potere e sottolineare che quei grillini dipinti come ignoranti sono diventati i potenti di turno, proprio quelli che al ribelle Dibba non sono mai piaciuti. E che brividi dare lezioni di stile a Fazio, ponendosi come il nuovo padrone di casa troppo magnanimo per sfrattare su due piedi l'inquilino ereditato dalla precedente proprietà.
Intanto eccolo lì, dimentico di debiti e tribolazioni dell'aziendina di famiglia, intento a guardare dall'alto il mitico acquario in studio, testimone silente di tante meteore del potere (Renzi, Gentiloni, Monti), sedutesi con baldanza quando pensavano di durare decenni. Di Battista si pone già come il vendicatore di un'acerba classe dirigente grillina che ha suscitato più ilarità che consensi. Va in tv con il rammarico di non poter dire a sua volta che «la pacchia è finita» (copyright dell'alleato Salvini) ma il tono è quello dell'uomo forte che non tollera più spiritosaggini altrui. Voleva dialogare con i tagliagole dell'Isis («vanno capiti») per poi accontentarsi di fare l'ospite d'onore nel talk show ancora ispirato a valori veltronian-clintoniani.
In Sudamerica, il grillino movimentista avrà senz'altro sentito parlare dei golpe, una specialità divenuta leggendaria a quelle latitudini. Ma al suo rientro l'unico blitz messo a segno è stato ottenere in multiproprietà il seggio mediatico offerto in passato con tanta generosità ai Saviano e alle Dandini. Un po' poco per un terzomondista che simula disagio da cittadino medio nel panorama provinciale dell'Italia gialloverde. Però non disdegna di farsi intervistare dal mite Fazio, empatico con la vecchia nomenklatura radical chic e poco incline per indole a disturbare i manovratori.
Dibba non è fesso: quando accusa scriteriatamente la «mano dei Benetton» dietro al discredito di Tonelli (autogenerato da gaffe e selfie maldestri), non si indigna dinanzi a un uomo di mondo che tace. E che manda in onda la pubblicità.
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