La moglie di Bossetti: "Vi racconto perché mio marito è innocente"

Marita Comi si confessa su Gente. "Non è lui l'assassino di Yara. Quella sera era in casa con me e i nostri bambini"

La moglie di Bossetti: "Vi racconto perché mio marito è innocente"

Stavolta parla lei. La donna, la moglie, la madre dei tre bambini avuti da quell'uomo che per gli investigatori sarebbe un mostro. Massimo Bossetti il muratore quarantaquattrenne arrestato una mattina di inizio estate. Con l'accusa di essere l'assassino di Yara Gambirasio. Cinquanta e rotti giorni sono trascorsi da quando i carabinieri lo fermarono mentre ignaro lavorava in un cantiere. Da lì il suo percorso finì direttamente verso una cella. Da qualche settimana può vedere la tv e leggere i giornali, ma è ancora in regime di isolamento.

«Da quando è rinchiuso l'ho incontrato sei volte. Ci guardiamo, lui piange spesso, dice che gli manca tutto e si chiede perché. Perché è successo tutto questo».

Marita Comi, chioma fluente e tratti decisi, una bella donna dal volto provato, da quel giorno è una donna in «fuga». Da telecamere e morbosi riflettori. Da domande e insinuazioni, dagli spifferi di una valle che tace ma sussurra. Lontana da tutto e da tutti, lei e i suoi bambini di 8, 10 e 13 anni, protetti dai parenti più intimi in un mondo all'improvviso ribaltato. Marita, adesso, ha deciso di rompere il silenzio, di schierarsi. Di raccontare la sua verità, gli anni di vita trascorsi con quel marito che una traccia di Dna ha trasformato in sospetto assassino. E lo fa attraverso le colonne del settimanale Gente , un'esclusiva in edicola oggi. Raccontando della sua esistenza catapultata nell'incubo, sospesa, surreale, ora, di fronte ai ritmi serafici di una normalità fino a ieri forse troppo tranquilla ma certo rassicurante.

Il 29 agosto compirà quarant'anni, l'età di una ragazza che diventa grande. Come l'impresa da affrontare.

Era titubante, incredula, terrorizzata all'inizio. Come quando i carabinieri le chiesero di suo marito, di dove si trovasse quella maledetta sera del 26 novembre 2010, giorno in cui la «farfalla» di Brembate sparì nel nulla. Gli investigatori, cercavano un altro tassello da impiantare in un teorema che ancora va dimostrato. All'iniziò Marita disse di no, di non essere certa: come faceva a quasi quattro anni di distanza a ricordare a che ora Massino fosse tornato a casa. Si disperò, imprecò contro la suocera Ester Arzuffi, rea di aver mentito sulla paternità del figlio. Poi, frugando nella memoria, davanti agli inquirenti, decise quale strada seguire. Quella della difesa. «Mio marito non è un assassino, non è un pedofilo», disse durante un interrogatorio lungo quasi tre ore.

Una certezza divenuta granitica. La signora Bossetti ricorda il giorno- era il 16 giugno- dell'arresto: «Mi sono entrati in casa all'improvviso, erano almeno 20 carabinieri, erano sulle scale, in cucina, ovunque. Non capivo, loro parlavano, io pensavo solo a mandare via i bambini». Già, Nicolas, 13 anni, Alice, nata nel 2004, e Aurora, nel 2006.

Sono loro i primi da tutelare. «In casa quella parola, assassino, non l'abbiamo mai pronunciata. Così come quell'altra parola, carcere. Se i ragazzi chiedono: “Il papà dove sta?”. Sta con i carabinieri, rispondiamo. Perché è coinvolto nella storia di Yara. Basta».

Quindici anni di matrimonio dopo otto di fidanzamento, due esistenze unite adesso divise dalle sbarre tetre di una prigione. Marita Comi si scaglia contro le ricostruzioni «fantasiose» fatte da giornali e tv: «Sono state scritte tante illazioni e bugie su Massimo, lui è un bonaccione. Hanno detto che quel pizzetto biondo gli dà una faccia da vizioso. Ma quale vizioso! Lui è biondo così. Ha la faccia di uno che lavora duro, si fa i fatti suoi, ha una faccia da buon padre. Anche la storia delle lampade: ne avrà fatta qualcuna, che male c'è, ma non tutte quelle che raccontano».

E sui fatti di quel 26 novembre 2010, Marita spiega: «Se Yara fosse stata uccisa al mattino o al pomeriggio, forse non potrei giurare sulla innocenza di mio marito. Ma quella bambina è morta dopo le 19, forse dopo le 22. Massimo non poteva essere là fuori a uccidere, perché era a casa. Mi dicono: come fai a esserne certa? Perché ogni giorno per noi è identico all'altro, da sempre.

Ecco perché posso sostenere: io so che non è lui, io gli credo. La banalità felice della nostra esistenza è il nostro alibi, la mia sicurezza».

di Andrea Acquarone

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