Morto il principe del foro che difese Craxi

Morto il principe del foro che difese Craxi

Mezzo secolo di toga da avvocato, di battaglie in aula, di processi per terrorismo e mafia, non si possono riassumere in un solo caso. Ma per Enzo Lo Giudice, scomparso ieri nella sua casa di Paola, la difesa di Bettino Craxi nei processi di Mani Pulite non fu solo la difesa di un imputato: fu la difesa di un intero modo di intendere la professione di avvocato, il proprio ruolo nel processo, il rapporto con i giudici e con gli accusatori. Quando Lo Giudice entrò in scena sulla ribalta di Tangentopoli, nel gennaio del 1993, Mani Pulite imperversava già da quasi un anno, e il nuovo «rito ambrosiano» al processo penale aveva già imposto le sue regole: cui anche avvocati di pregio e di dottrina non avevano voluto o saputo sottrarsi. Enzo Lo Giudice se ne infischiò. Entrò in scena con una intervista all' Avanti! in cui attaccava di petto il clima di inciucio generalizzato tra accusa e difesa prodotto dalla sbornia collettiva di quei mesi, con parole che oggi appaiono quasi scontate, ma che allora richiedevano coraggio: parlando di «una incestuosa commistione di poteri lontana mille miglia dalla civiltà giuridica. Esempi? La confessione come condizione di libertà, l'uso strumentale delle circostanze confessate».

La sua apparizione come difensore del segretario del Psi stupì molti, tanto in tribunale che dentro il Partito. Non faceva parte del Gotha né dell'uno né dell'altro. Nel Psi c'era stato brevemente da ragazzo, poi ne era uscito con il Psiup, era approdato l'Unione dei marxisti leninisti, ed era stato responsabile per il Mezzogiorno dei maoisti di «Servire il popolo». Sul percorso che l'aveva portato dal libretto rosso di Mao ai conti esteri di Craxi, si fece più di un'ironia, e lui stesso un po' ci giocava, come quando davanti all'ennesimo avviso di garanzia per finanziamento illecito spiegò ai cronisti che «in fondo anche Lenin rapinava i treni per finanziare la rivoluzione».

Ma dietro queste facezie c'erano due convinzioni profonde e radicate: la prima, che nessuna santa causa potesse giustificare il massacro delle regole del processo penale; la seconda, che l'intera storia dei finanziamenti occulti alla politica italiana fosse più complessa del fumettone di buste gonfie di soldi e di arricchimenti personali che veniva raccontato dai tanti, torrenziali testimoni dell'indagine milanese. E non a caso fu lui il primo a evocare la figura di «uno straniero legato all'Olp» come depositario di parte dei conti del Psi, gettando un cono di luce sul tema dei rapporti finanziari tra il partito di Craxi e gruppi di opposizione sparsi per il mondo, che gli inquirenti si guardarono bene dall'approfondire.

Il 13 marzo 1994 Craxi, cui era stato appena ritirato il passaporto, sparì dall'Italia lasciando Lo Giudice a spiegare ai cronisti che «tornerà presto, questione di giorni». Non tornò più, e morì sei anni dopo, latitante ad Hammamet. Furono anni quasi surreali, con Lo Giudice e il suo collega Giannino Guiso a difendere senza speranze un imputato invisibile su cui piovevano le condanne. Ma anche allora Lo Giudice non si piegò all'andazzo. Solo sul finale, quando ormai il diabete divorava Craxi, si spese in un tentativo estremo di convincere il pool a sospendere gli ordini di cattura. Andò a bussare alla porta di Gerardo D'Ambrosio, e ne ottenne una cauta disponibilità. Poi qualcun altro mise il veto.

Enzo Lo Giudice era malato da tempo, e

all'inizio dell'estate aveva chiesto di tornare in Calabria. Il 16 agosto, con uno sforzo, si era alzato per festeggiare gli ottant'anni. Sul suo ultimo libro, la biografia lo definisce così: «avvocato e militante comunista».

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