Nella clinica degli addii ora tocca a Gianni: "Noi, traditi dall'Italia"

Il pensionato veneto malato terminale ha scelto la morte nella stessa struttura di Fabo

Nella clinica degli addii ora tocca a Gianni: "Noi, traditi dall'Italia"

Gianni, 64 anni, poteva essere il padre di Fabo, che di anni ne aveva 39 anni. Ma Gianni e Fabo, al di là della differenza d'età, restano uniti da un destino di sofferenza che li lega quanto, e forse più, di un rapporto tra padre e figlio. È quell'«inferno di dolore, di dolore, di dolore» (scandito tre volte da Fabo nel suo ultimo messaggio prima di dire addio alla vita) rappresenta il filo invisibile che attorciglia umanamente Gianni a Fabo, e viceversa. Un uomo maturo e un giovane che non si conoscevano, eppure erano le due metà di una stessa faccia, di uno stesso cuore, di una stessa anima. E forse anche per questo è significativo che Gianni ieri, a 24 ore dall'estremo saluto al mondo di Fabo, abbia replicato il medesimo ultimo dalla stessa clinica svizzera che ha accolto entrambi.

Ci piace pensare che non si tratti di una semplice coincidenza. Anche perché ad accomunare il fato di Gianni e Fabo ci sono le identiche parole di denuncia contro «uno Stato (quello italiano, ndr) che impedisce una fine dignitosa a chi non ha più nulla da chiedere a un'esistenza di incurabile malattia». Ma l'idem sentire di Gianni e Fabo non si esaurisce qui: anche le persone che sono state al loro fianco in ogni fase del suicidio assistito sembrano la fotocopia l'una dell'altra. A tenere la mano di Fabo c'era Valeria, una fidanzata meravigliosa; a dare l'ultimo bacio a Gianni c'era Emanuela, una moglie altrettanto meravigliosa. Davanti al letto di Fabo tanti amici; idem davanti a quello di Gianni, con in più la presenza confortante di Marta, la figlia che ogni padre sogna di avere. Donne coraggiose Valeria, Marta e Emanuela. Parole dure, le loro, accomunate da ferite mai cauterizzate. Carne viva da cui sgorgano gocce di indignazione: «Viviamo in un paese incivile che ci ha costretti a venire a morire all'estero, tra mille disagi e spese ingenti». E in questa frase si riverbera pure il dramma di Gianni, pensionato Telecom, che avrebbe potuto vivere ancora mesi, forse anni, ma che non riusciva più a mangiare, a parlare, a dormire.

«Sono sempre stato un salutista, vegano addirittura - è il racconto che Gianni faceva di sé -. Poi la diagnosi del tumore, la prima operazione, le cure. Quindi la ricaduta, altre terapie, altra operazione. E ho detto basta! Mi sono informato, ho mandato le cartelle cliniche. E alla fine, dopo mesi di attesa, mi hanno convocato».

La moglie e la figlia spiegano che «Gianni era malato da due anni e la sua malattia lo ha ridotto ad avere una non-vita. Diversi anni fa, ben prima che si ammalasse, eravamo insieme davanti alla televisione e guardavamo un programma dove c'era un servizio proprio su questo suicidio assistito in Svizzera. Gianni ci guardò e disse: Se mi ammalo voglio morire così». E così ieri erano tutti e tre lì, alla Dignitas la «clinica» della dolce morte. È un cubo in mezzo al verde di una periferia industriale. Attorno montagne e un cielo che sembra una fazzoletto celeste per asciugare le lacrime. Non solo quelle di Emanuela e Marta, ma di tutti quelli che qui accompagnano un «qualcuno» che, in realtà, è una parte di sé. Chi muore qui non muore mai da solo, si tratta sempre di una morte «condivisa». Fondamentale per trovare la forza di riprendere a sperare. «Provo dolori lancinanti - ha ripetuto Gianni per l'ennesima volta -. È una sofferenza senza senso». E allora meglio farla finita.

Erano le 11 di ieri mattina quando ha baciato per l'ultima volta Marta e Emanuela. Per gli amici un bigliettino: «Vi voglio bene».

E per Fabo un pensiero: «Eccomi, sto arrivando. Ho voglia di conoscerti».

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