Politica

Niente fiducia sul Jobs Act E nel Pd tira aria di fronda

L'ok di 17 deputati democrat a un emendamento Sel spacca il partito. Civati: «In 30 pronti a votare contro». E i numeri al Senato sono risicati

Sul Jobs Act il governo evita, salvo sorprese dell'ultimo minuto, il ricorso alla fiducia; ma non riesce a tamponare l'aperto dissenso di una folta pattuglia di deputati della sinistra Pd. Anche se gli emendamenti sull'articolo 18 sono stati respinti, si conferma tuttavia il grosso problema politico in casa democrat. Alcuni parlamentari di Sel riferiscono infatti che 17 deputati appartenenti all'ala sinistra del Pd hanno votato a favore dell'emendamento di Sel in difesa dell'articolo 18. Altri deputati Pd non hanno partecipato al voto, mentre due grillini sono stati espulsi per aver ripreso i lavori con un cellulare. E in serata, ospite a Piazzapulita , Pippo Civati ha rivelato: «Io e altri 30 parlamentari non voteremo a favore del Jobs Act ».

I dissenzienti, capitanati da Gianni Cuperlo, Stefano Fassina e dallo stesso Civati, hanno votato a favore di un emendamento presentato dall'ex sindacalista dei metalmeccanici Cgil Giorgio Airaudo, ora parlamentare «vendoliano». La proposta era orientata a mantenere le tutele dell'articolo 18 per tutti i lavoratori dopo un solo anno di prova. Oltre ai tre leader della sinistra Pd, hanno votato a favore Albini, Argentin, Beni, Cara, Cimbro, Farina, Fossati, Gregori, Iacono, Laforgia, Mogniato, Pollastrini, Scuvera e Terrosi. Fra i non votanti, Alfredo D'Attorre. Il fossato fra i renziani e la sinistra Pd si allarga pericolosamente. Alla Camera i numeri della maggioranza consentono la fronda, ma al Senato le cose potrebbero andare diversamente, visto che anche il M5S è schierato a difesa dell'articolo 18. Ieri, due deputati grillini sono stati espulsi dall'aula per intemperanze. E soffia sul fuoco anche il solito Maurizio Landini. Per il segretario dei metalmeccanici Cgil, il Jobs Act non crea nuovi posti di lavoro:. «L'idea che facendo licenziare le persone e riducendo un po' le tasse si fa ripartire il Paese - dice - è una bugia».

La riforma del lavoro, segnata da bende e cerotti politici, dovrebbe comunque essere approvata domani dall'aula di Montecitorio. Sugli emendamenti presentati è calata infatti la mannaia della presidenza della Camera: sono ammesse al voto solo le proposte di modifica segnalate dai gruppi parlamentari, una settantina. Il testo finale passerà quindi al Senato. Dopo il via libera di domani al Jobs Act , comincerà a Montecitorio l'esame della legge di Stabilità. Anche in questo caso, il cammino sarà complicato.

E mentre nel Pd debbono vedersela con il «fuoco amico», non mancano le incertezze sul merito della riforma del lavoro. La questione spinosa riguarda i decreti delegati che seguiranno la legge delega. Un esempio per tutti: che indennizzo sarà riconosciuto al lavoratore licenziato per motivi disciplinari, e non reintegrabile? E il licenziamento per motivi economici quanto costerà alle aziende? Secondo le intenzioni del governo, il contratto «a tutele crescenti» dovrebbe partire già da gennaio per i nuovi assunti. Assodato che l'indennità di licenziamento aumenta con il crescere dell'anzianità del lavoratore, si parla di un indennizzo fra un minimo di 12 mesi di stipendio e un massimo di 24 mesi. Cifre che potrebbero risultare troppo gravose per le piccole e medie imprese.

I tecnici del ministro Giuliano Poletti sono al lavoro per cercare le soluzioni, ma i tempi sono stretti.

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