Al tavolo delle riforme costituzionali c'è un convitato di pietra che tutti vedono, ma nessuno ha il coraggio di nominare; lo vede Berlusconi, in realtà già da quando presidente del Consiglio dovette ammettere sconsolato che, una volta entrato nella famosa stanza dei bottoni, si accorse «che i bottoni non c'erano». Lo vede Renzi che in cuor suo (forse) vorrebbe evocarlo ma non può perché altrimenti la sinistra del suo partito gli salta al collo. Questo convitato di pietra è, come nel Don Giovanni, una «muta presenza inquietante e minacciosa» che però, se negato, rischia di inficiare tutte le riforme rendendo vano il superamento del bicameralismo perfetto su cui si sta lavorando da quasi sei mesi. Il convitato di pietra si chiama: premierato. Possiamo girare intorno al problema quanto vogliamo, farci accusare dai polverosi custodi della «Costituzione più bella del mondo» di cesarismo e autoritarismo, ma senza una riforma che consenta di avere un premier con chiara legittimità popolare e con poteri reali di governo, tutto rischia di essere inutile: un Senato federale o la riduzione del numero di parlamentari non sono sufficienti a garantire una governabilità del paese in linea con la necessità di dare risposte veloci ai cambiamenti imposti. Oggi un presidente del Consiglio ha meno poteri di un sindaco di un capoluogo di Provincia. Non è eletto dai cittadini ma da una maggioranza parlamentare che spesso non è quella uscita dalle urne. Non può nominare i suoi ministri, né revocarli come invece fa un sindaco con i suoi assessori. Non può sciogliere le Camere per andare a nuove elezioni perché è prerogativa del presidente della Repubblica che troppo spesso ne fa un uso improprio e politico. Ma le riforme costituzionali servono fondamentalmente a due cose: primo, a ridare sovranità e democrazia.
Secondo, a garantire una migliore governabilità. Sovranità e democrazia ci servono perché in tre anni abbiamo avuto tre governi non scelti dai cittadini e di questi, due (Monti e Renzi), nati con forzature parlamentari mai viste (il primo a seguito di un'operazione di aggressione internazionale all'Italia appoggiata dall'interno e il secondo, addirittura, con una maggioranza che ha votato un nuovo governo senza aver mai sfiduciato il precedente). La governabilità invece, è necessaria per consentire di realizzare velocemente le riforme economiche di cui questo Paese ha bisogno. Ogni riforma costituzionale non è mai neutra ma impatta sull'economia e sulle trasformazioni sociali di un paese. Modificare l'architettura dello Stato, l'equilibrio dei poteri, i processi decisionali non è una questione ornamentale e può produrre risultati positivi o negativi a seconda della efficacia della riforma. Un esempio evidente, nella nostra storia recente, è stato la scellerata modifica del Titolo V imposta a colpi di maggioranza nel 2001 dalla sinistra con i governi D'Alema e Amato.
Questa riforma ha causato l'esplosione del debito pubblico e la crescita incontrollata della burocrazia; aver tolto funzioni di spesa allo Stato decentrandole alle regioni senza però avere il coraggio di creare vero federalismo economico e amministrativo ha solo prodotto una moltiplicazione irresponsabile e fuori controllo dei centri di costo ed una duplicazione di funzioni burocratiche sulla testa dei cittadini. Ecco perché anche queste riforme rischiano di essere l'ennesima occasione perduta che, questa volta, sarebbe insostenibile per l'intero sistema Italia. Non si cambia un Paese governando insieme; al massimo lo s'imbroglia.
Si cambia un Paese costruendo insieme le fondamenta di una democrazia rappresentativa che svuoti il potere di oligarchie e tecnocrati riconsegnando ai cittadini la loro sovranità e a coloro che essi scelgono, la possibilità di governare senza ricatti e veti incrociati; unica condizione per evitare di diventare una dependance di Bruxelles, come ha ammonito recentemente Draghi. Questo Berlusconi lo sa e Renzi lo auspica. C'è solo bisogno di più coraggio.@GiampaoloRossi
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