In ostaggio 50 atomiche americane

Le testate sono nella base militare di Incirlik. La vendetta di Erdogan: 6mila arresti

In ostaggio 50 atomiche americane

Si dirà: il fallito golpe in Turchia è affar loro, dei turchi; di quelli che stanno con o contro il signor presidente Erdogan, detto il Sultano. E si potrebbe anche essere d'accordo sul punto, visto che al momento, con gli uomini dell'Isis (o i loro manutengoli, è lo stesso) che scorrazzano nel cuore dell'Europa seminando morti, abbiamo altre faccende più urgenti. Ma non è così. Non solo perché anche quello è un pezzo d'Europa che da tempo chiede di entrare, con i suoi muezzin, i suoi minareti e le sue donne velate, a far parte dell'Ue. Non solo perché quel Paese fa parte dell'Alleanza Atlantica. C'è un altro aspetto, non marginale, che ci riguarda da vicino. Si dà infatti il caso che nella base aerea di Incirlik, da cui decollano gli aerei Usa che bombardano le basi Isis in Siria e in Irak, ci sono una bella cinquantina di testate atomiche. Testate tattiche, certo. Di quelle che, all'occorrenza, verrebbero usate in teatri bellici circoscritti; non quelle nespole terrificanti di cui il genere umano ha già avuto un assaggio ai tempi di Hiroshima e Nagasaki. Ma pur sempre testate atomiche. Testate immagazzinate in una base militare il cui comandante, Bekir Ercan, figura tra gli arrestati per il fallito golpe.

Altri sette militari sono stati arrestati nella base aerea di Konya dopo aver opposto resistenza alle truppe lealiste. E lo stesso è accaduto nel secondo aeroporto di Istanbul Sabiha Gokcen, dopo la polizia ha arrestato diversi soldati, aprendo il fuoco. Forse dunque è venuto il momento di interrogarsi, a Washington non meno che a Bruxelles, in sede Nato, se un Paese instabile come la Turchia, -avviato col suo presidente verso una satrapia di tipo dirigista- abbia ancora le carte in regola per ambire a occupare un posto alla tavola dell'Ue. O c'è qualcuno che ritiene possibile dialogare con un Paese dove i dissidi interni si regolano facendo scendere i carri armati nelle strade; dove i magistrati non allineati si licenziano a migliaia dalla sera alla mattina, e dove si progetta, come ha ventilato ieri Erdogan (ma se ne discuterà con l'opposizione», ha aggiunto, magnanimo) di ripristinare la pena di morte, abolita solo 12 anni fa, per punire i golpisti?

Il giorno dopo, ad Ankara si tirano intanto le prime somme del fallito putsch. Duecentonovanta i morti (almeno cento fra i golpisti), 1400 i feriti, seimila gli arrestati, 2750 fra i quali sono magistrati accusati di far parte del gruppo di Fetullah Gülen, imam rifugiato negli Stati Uniti che viene indicato dal governo di Ankara come il regista mica tanto occulto del golpe. Come poi sapessero, i fedelissimi di Erdogan, che quasi 3mila giudici erano al soldo del «nemico numero 1» dello Stato turco è un mistero che non è stato svelato. Sicché l'epurazione (i servizi hanno invitato a segnalare i filo golpisti individuati sui social network), fa piuttosto pensare a un piano preordinato, a liste di proscrizione, a una combine per spazzare dalla scena, in un «golpe» solo, una bella fetta di oppositori, in divisa (52 gli alti ufficiali arrestati, compreso l'assistente militare personale di Erdogan) e non. Nonché stemperare il clima infuocato di queste ore, il presidente turco punta ora a esarcerbare il dissidio profondo che separa le due anime di un Paese sull'orlo di una crisi dagli esiti imprevedibili. Di qui il suo invito ai cittadini (ieri è anche andato ai funerali delle vittime) a restare nelle strade. «Non abbandonate le piazze, non rilassatevi», ha detto.

A dare una mano all'uomo forte di Ankara è già sceso in campo l'uomo forte di Mosca, Vladimir Putin, atteso in Turchia la settimana prossima. Sullo sfondo, l'ombra sinistra di un braccio di ferro con gli Usa, accusati (il segretario di Stato Kerry ovviamente nega) di aver protetto, se non proprio incoraggiato l'imam Gülen, a scatenare il golpe.

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