L'incertezza sulla tassazione delle imprese in Italia è uno dei fattori principali dell'allontanamento degli investitori esteri dal nostro Paese. Sembra un'ovvietà, ma l'Ocse - in collaborazione con il Fondo monetario internazionale - ha dato sostanza statistica alla comune percezione. Merito di un'indagine condotta su un campione di 724 imprenditori e associazioni industriali distribuite su 62 Paesi.
Ebbene, dal 1983 al 2014 nelle economie più sviluppate si è registrato in media un cambiamento della normativa (oltreché delle aliquote) ogni 18 mesi, cioè 17 modifiche in totale. Una delle anomalie più evidenti è quella italiana con ben 32 cambiamenti, cioè uno all'anno. Peggio ha fatto solo la Francia con 40 emendamenti complessivi all'imposta sul reddito d'impresa, una ogni dieci mesi. Dall'altra parte della barricata si collocano Corea del Sud e Danimarca (10 e 9 cambiamenti rispettivamente), ma non sono gli scarti maggiori rispetto alla media a fare notizia quanto il fatto che un diretto concorrente dell'Italia come la Germania nell'analogo periodo abbia apportato solo una ventina di modifiche alla tassa sulle corporation, un po' più del Giappone. Gli Stati che hanno voluto attrarre investimenti o capitali, anche se molto diversi tra loro come Usa, Repubblica Ceca e Lussemburgo, non hanno praticamente toccato l'imposta.
Ma basta solo una girandola di aliquote a spaventare chi vuole fare business nel nostro Paese? A ben guardare ci sono anche altre problematiche di non facile soluzione e delle quali abbiamo parlato spesso nei mesi scorsi. In primo luogo, la cosiddetta compliance. Non sempre, infatti, il problema è quanto si paga ma soprattutto che il pagamento dell'imposta metta al riparo da successive rivalse dell'amministrazione fiscale, come chi ha a che fare con l'Agenzia delle Entrate non raramente sperimenta. In secondo luogo - e anche questa può sembrare un'ovvietà - la rapidità con cui il contenzioso fiscale si porta a compimento. E anche qui l'Italia non ha mai brillato per rapidità: non a caso il governo, anche per esigenze di cassa, starebbe pensando a una sorta di «rottamazione» delle liti fiscali (a fine 2016 sono scese sotto le 500 mila a 469mila con una riduzione dell'11,6% annuo, stando alle statistiche del Tesoro) sulla falsariga di quella delle cartelle esattoriali proprio per ovviare al problema.
Gli argomenti analizzati dall'Ocse, su impulso dell'ultimo G20 di Guangzhou, sono addirittura prioritari per gli imprenditori globali rispetto ad altri fattori quotidianamente sulla ribalta mediatica come congiuntura economica, costo del lavoro e la presenza di personale adeguatamente formato. Insomma, se non vi è certezza del trattamento fiscale dei redditi d'impresa, se non si è sicuri del regime Iva, non si investe. La stabilità delle regole del gioco conta addirittura di più dei benefici fiscali sovente usati come mezzo di attrazione. A tal proposito il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli, in un'intervista al Corriere, si è dichiarato contrario alle ipotesi di aumento dell'Iva come mezzo per mettere i conti pubblici al sicuro nella prossima manovra e finanziare altre riduzioni di imposta come quella dell'Irpef.
«È un'idea sbagliata perché si avrebbe un calo dei consumi attorno ai 15 miliardi di euro, pari a 0,9 punti di Pil», ha sottolineato mettendo in evidenza come il recupero stimato di 19 miliardi di gettito sarebbe vanificato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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