Parte la guerriglia nel Pd dopo il ko del segretario

Sul congresso Guerini frena e Orfini insiste. Emiliano: Renzi si deve dimettere, voleva il Paese col referendum

Parte la guerriglia nel Pd dopo il ko del segretario

Come i guerrieri primitivi, dice un deputato di gran rango nelle gerarchie nazarene, «nella tribù dei Renziotes si sono colorati la faccia per spaventare gli avversari; ora che il Capo è nel capanno ferito a morte, qualcuno non se la ripulisce per lo sgomento, altri per la paura, i più per horror vacui».

«Non si può pensare che l'anarchia possa essere la fisiologia del Pd», è l'ascia di guerra scagliata dal presidente Matteo Orfini, pronto ad aprire le ostilità in un congresso da indire il più presto possibile. Volontà espressa in una bellicosa intervista, proprio mentre il vicesegretario Lorenzo Guerini, al giornale concorrente, precisava con toni prudenti che prima del congresso pidino viene il Paese e di non credere ai gossip sulle ambizioni di Franceschini. Invece il puntuto presidente, già commissario romano che doveva risolvere il caso-Marino (sappiamo com'è andata), vede proprio in Franceschini il nemico pubblico numero uno. «Non è l'azionista di maggioranza del partito, né lui né nessun altro può immaginare di gestire il Pd come una federazione di correnti, perché non si fa il bene del partito», spara Orfini. A giudicare perciò dai numeri due e tre della nomenklatura, non è poi molto chiaro quale esso sia. Lo si capisce persino meglio dall'esterno. «Finora Renzi ha potuto godere dell'aura del vincente - spiega Pino Pisicchio, curriculm di gran classe dc -, ma non sappiamo quanto abbia inciso nel dna dell'ultimo partito esistente, ora alla prova. Ricordo bene in quanto tempo si dileguò la super-solida maggioranza bersaniana». Per il filosofo Massimo Cacciari, «il Pd è un partito mai nato, un calderone di linguaggi e culture incompatibili». L'unica cosa sensata? «Sciogliersi».

Se con l'ormai prevedibile varo della navicella Gentiloni, teleguidata da Firenze, verrà sedato un capriccio del Capo, non è detto che il prosieguo della legislatura riesca a soddisfarne gli altri. L'idea di un partito tutto suo riscuote consensi più da fuori che dal di dentro, dove chissà quanti sarebbero pronti a seguirlo per immolarsi. Ma se la leadership di Renzi sembrerebbe ancora salda (la scelta di Gentiloni lo avvalora), ciò non toglie che nel Pd il malessere è palpabile: al momento, forse, più in periferia che fra i burocrati del Nazareno (com'è ovvio, visto che la gran parte è scelta dal segretario). Ma le pedine hanno comunque cominciato a muoversi, e non si tratta ormai soltanto dei soliti bersaniani o di Cuperlo. Il segretario ha perduto il meglio del proprio fascino: non fa gol, non vince più (se non alla playstation con Orfini, pare). E se Franceschini ieri ironizzava su Twitter sui retroscena fantastici che gli sono stati attribuiti, Andrea Orlando rassicura il Capo sospettoso con la ripetizione a memoria della linea: «Renzi è il nostro riferimento, la legislatura s'è chiusa con il referendum, dobbiamo solo capire come arrivare ad elezioni». Restio ormai alle discussioni, il Pd pare poter contare su poche voci franche. Come quella di Michele Emiliano, che ammette: «La riforma era solo un modo per impadronirsi del Paese». L'ultimo dei problemi è «come deve ricominciare Renzi, il vero problema è come ricominciamo noi... Lui ora non può scomparire, scapparsene col pallone.

Se vuole gestire la transizione al congresso, dopo le dimissioni da premier, dovrebbe presentare anche quelle da segretario del Pd». Ne sarebbe capace? Considerata l'attitudine per le discussioni approfondite, un attimo prima di andare a fondare il Pd2, la vendetta.

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