La partita più difficile del Viminale: l'interventismo della Guardia Costiera

Il ruolo ambiguo delle Capitanerie. Che ora Salvini non tollera più

La partita più difficile del Viminale: l'interventismo della Guardia Costiera

Mattarella sarà un problema, ma la vera spina nel fianco di Matteo Salvini si chiama Guardia Costiera. Una Guardia Costiera che per due volte, e sempre in seguito alle attività del pattugliatore Diciotti, si ritrova nel mirino del ministro dell'Interno. La prima volta fu l'11 giugno scorso. Allora, nel pieno della crisi «Aquarius», il pattugliatore scaricò a Catania 937 migranti prelevati nel corso di sette operazioni effettuate in prossimità delle acque libiche. Sette operazioni non molto in linea con l'indirizzo politico di un Viminale assai esplicito nel suggerire di mantenersi a distanza dalla Libia. La seconda riguarda l'intervento della Diciotti, nell'interpretazione di Salvini perlomeno dubbio, per il trasbordo di 67 migranti sospettati di aver minacciato il personale della Vos Thalassa.

Ci sono state vere minacce o, come si sospetta agli Interni, si è utilizzata una situazione ambigua per sottrarre i migranti a Tripoli e affidarli ad una Guardia Costiera pronta a stare al gioco? L'interrogativo, destinato a restar irrisolto, è il sintomo della diffidenza che divide Viminale e Guardia Costiera. Per comprenderne le fondamenta basta ricordare la deposizione davanti alla Commissione Difesa del Senato con cui, un anno fa, l'allora Comandante generale delle Capitanerie di Porto Ammiraglio Vincenzo Melone difese le Ong messe sotto accusa dal procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. L'atteggiamento di Melone era perfettamente coerente con quello di una Guardia Costiera diventata la referente diretta delle Ong. Era infatti l'Imrcc, il Centro Nazionale per il Coordinamento del Soccorso marittimo di Roma, ad assegnare loro le competenze d'intervento in seguito a chiamate di «soccorso» partite talvolta dai satellitari degli stessi trafficanti di uomini.

Il tutto mentre le navi delle Ong attendevano ai margini delle acque territoriali libiche. La Guardia Costiera si era immedesimata, insomma, nel ruolo di grande coordinatore dei soccorsi che costavano all'Italia una media di 150mila sbarchi all'anno. Un ruolo che non le andava assolutamente stretto. Indispettita per il ruolo centrale attribuito alla Marina Militare nella fase iniziale di Mare Nostrum la Guardia Costiera aveva sgomitato sin dopo l'arrivo del governo Renzi per avere un ruolo più centrale nelle operazioni di soccorso. Pretesa corretta e derivante dalla convenzione di Amburgo del 1979 sul soccorso marittimo, ma esercitata con estrema spregiudicatezza anche per lenire le frustrazioni subite in seguito ad un federalismo amministrativo che le aveva tolto ogni competenza sui demani. Così sfruttando l'insana decisione del governo Renzi di far sbarcare in Italia tutti i disperati soccorsi davanti alla Libia la Guardia Costiera ha trasformato il soccorso ai migranti nella principale ragion d'essere. E ha investito su mezzi sempre più potenti che ne hanno ampliato il raggio d'azione.

Le ambizioni della Guardia Costiera hanno finito però con l'ampliare anche le competenze dell'Italia. A furia di sostituirsi alle competenze di tutti i suoi omologhi del Mediterraneo, Malta in testa, la Guardia Costiera ha finito con l'allargare a dismisura la zona di salvataggio di competenza italiana portandola dagli originali 500mila chilometri quadrati ad oltre un milione. Uno sforzo compensato con i titoli di giornale e i servizi che per anni l'hanno incensata lodandone sforzi e dedizioni.

Peccato che il governo Renzi non ci sia più e le competenze tutte italiane dei salvataggi e degli sbarchi siano già state messe in discussione dal ministro Minniti. Ma al Comando generale delle Capitanerie di Porto hanno preferito non accorgersene. E continuano a farlo anche quando Salvini alza la voce.

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