Uno dopo l'altro, a ogni angolo del globo, stanno spuntando i fiori del male. Sono quelli che odorano di recessione e che fanno strame della narrativa zuccherosa di un mondo in perpetua crescita. Ora, invece, si rischia di dover aggiornare il lessico tossico della crisi, nonostante il governo si ostini a declamare le magnifiche sorti e progressive del Pil nostrano, ancora accreditato di uno slancio dell'1,5% nel 2019. Bankitalia ha confermato ieri che non si andrà oltre l'1% (1,1% nel 2020), ma l'anno prossimo potrebbe essere molto più dura. L'Europa è già un cavallo zoppo: ha trottato per un po' grazie agli estrogeni della Bce sotto forma di quantitative easing. Il solo volano della crescita, come ha detto giovedì Mario Draghi senza giri di parole. Ma ora le iniezioni di quantitative easing stanno per finire, proprio nel momento in cui si moltiplicano i segnali di debolezza. L'ultimo è arrivato ieri dall'indice sulla manifattura dell'euro zona, sceso in dicembre a 51,3 da 52,7 di novembre. È il valore minimo in 49 mesi: il motore dell'industria batte in testa, in sincrono con un'espansione economica rivista al ribasso dalla stessa Bce. I mercati hanno preso nota e fatto scendere l'euro sotto quota 1,13 dollari. Qualcuno avrà magari già cominciato a interrogarsi se la contrazione dello 0,2% accusata dalla Germania nel terzo trimestre non sia un fatto episodico. E se quindi l'Italia, sesto Paese per export e quinto per import per i tedeschi, non ne seguirà la stessa sorte. Già lo stallo del nostro Pil tra luglio e settembre può essere il primo sintomo di un malessere condiviso.
Continuare a rimirare il proprio ombelico, senza accorgersi di quanto sta avvenendo altrove, è miope. C'è un mondo intero, globalizzato e interfacciato, in frenata: dalla Cina, dove la produzione industriale è aumentata del 5,4% in novembre (il passo di crescita più lento in quasi tre anni) e le spese private solo salite dell'8,1% (mai così male dal 2003); agli Stati Uniti, che hanno visto crollare da 55,3 a 53,9, il minimo da settembre 2017, il loro indice manifatturiero. Le recenti turbolenze dei mercati finanziari si stanno insomma estendendo all'economia reale. La maggioranza dei direttori finanziari delle corporation Usa ha già messo l'elmetto e scavato la trincea, preparandosi al fatto che il Paese affonderà in una recessione entro la fine del primo mandato di Donald Trump, nel 2020; circa la metà di loro è convinto che la crisi arriverà l'anno prossimo. La crescita artificiale indotta dagli sgravi fiscali del tycoon dovrebbe del resto esaurirsi nell'ultimo trimestre dell'anno in corso. All'economia americana non sta giovando la guerra commerciale con la Cina. E nemmeno a quella del Dragone. L'armistizio di tre mesi fra le due super-potenze serve proprio a evitare altri danni.
Ma forse non sarà sufficiente. Soprattutto se la Federal Reserve terrà il piede sul rialzo dei tassi, nonostante gli inviti ruvidi a desistere di Trump. Il boccino resta in mano alle banche centrali. Chiuso il Qe, la Bce ha cancellato dall'agenda il tema-tassi, si prepara ad aiutare le banche (aste Ltro) e a reinvestire i bond pubblici in scadenza per mettere la sordina agli spread.
Un aiuto anche a noi, sempre che Draghi non si trovi tra le mani la bomba di nuove e significative deviazioni nei conti dell'Italia. Sullo sfondo, resta l'ammontare del debito globale: 247mila miliardi di dollari, 70mila in più di 10anni fa. Un Moloch che presto potrebbe richiedere sacrifici.
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