«Eravamo dall'altra parte di Milano, tutto il mio reparto a bordo dei mezzi, quando ci è arrivato l'ordine via radio di correre in corso Buenos Aires perché la situazione stava uscendo di controllo. E quando siamo arrivati lì ci siamo trovati davvero in mezzo a un casino, a un certo punto ci lanciavano addosso di tutto».
A parlare è un poliziotto del Reparto Mobile di Milano, quella che una volta si chiamava la Celere: gli uomini e le donne con casco e scudo che lo Stato manda in prima linea a difendere l'ordine pubblico. Lavoro infame, fatto di attese interminabili a fare da intervallo tra l'adrenalina e il pericolo. Ma in questi giorni c'è un guaio in più: perché lunedì sera a Milano o a Torino, come due sere prima a Napoli, non c'erano da fronteggiare solo facinorosi dell'estremismo politico, o la teppa delle curve da stadio. In mezzo alla protesta c'era anche gente qualunque, esasperata e impaurita più dal lockdown che dall'epidemia. E tra gli uomini in grigioverde quanti avevano a casa una moglie col negozietto chiuso, un fratello barista o cameriere in cassa integrazione? Anche a Milano, come a Trieste, fin quando la protesta è stata pacifica molti poliziotti stavano in cuor loro dalla parte dei manifestanti. Ma poi sono partite le violenze, e tutto è cambiato,
«Quando siamo arrivati sul posto la situazione era ancora tranquilla, ci siamo schierati ai margini del percorso. Ma poco dopo i reparti schierati a difesa della sede della Regione sono stati attaccati, abbiamo cercato di intervenire a sostegno dei colleghi e lì pioveva di tutto, è arrivato un gruppo di manifestanti che ha iniziato a lanciare una bomba carta dopo l'altra, a un certo punto è arrivata persino una molotov. Non ha fatto molti danni, ma per i colleghi più giovani è stata la prima volta, finora ne avevano sentito solo parlare dai più anziani».
Sono i momenti drammatici in cui, in un video pubblicato su Fanpage, un funzionario di polizia prepara il reparto all'uso dei lacrimogeni, «porca puttana, se si avvicinano un'altra volta avanziamo tutti quanti, spariamo e li ammazziamo col fumo». E così accade. Dalla sede della Regione i reparti di polizia e carabinieri contrattaccano e prendono il controllo di via Melchiorre Gioia. «Noi ci siamo fermati per non lasciare sguarnita la Regione, ma ho visto un altro reparto dei nostri affiancati ai carabinieri del Battaglione Lombardia arrivare fino all'altezza di via Sassetti e lì venire attaccati su due fronti». Il racconto del poliziotto disegna una sera di guerriglia organizzata, un piano di battaglia pianificato e coordinato. Se i ventotto manifestanti fermati e poi rilasciati appaiono prevalentemente dei «cani sciolti» arrivati in piazza individualmente o a piccoli gruppi, agli uomini della Celere è rimasta invece l'impressione di essere davanti a un'offensiva coordinata. «Il reparto sotto attacco ha avuto l'ordine di indossare le maschere antigas e di reagire con il lancio dei candelotti lacrimogeni, i manifestanti all'inizio si sono dispersi ma poco dopo si sono ricompattati». Anche questa è una reazione da habituè dello scontro di piazza, una tecnica vecchia di decenni. «A quel punto il lancio di ordigni e di sassi è ripreso, i colleghi e i carabinieri sono avanzati lungo via Pirelli disperdendo i violenti fino ad arrivare in piazza Duca d'Aosta, davanti alla Stazione Centrale. Lì abbiamo ripreso completamente il controllo della situazione».
Bilancio complessivo? «Siamo stati diretti bene dai nostri funzionari e alla fine siamo usciti senza troppi danni da una situazione non facile». Ma nella caserma della Celere, mentre si ripongono negli armadi scudi e manganelli, sono in tanti a temere che sia stato solo l'inizio.
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