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Processo Eni, il supertestimone finisce in cella

Condannato l'avvocato Amara, che i pm di Milano volevano sentire sulle tangenti in Africa

Processo Eni, il supertestimone finisce in cella

È un'altra tegola che cade, sia pure indirettamente, sulla procura di Milano. L'avvocato Piero Amara (nel tondo, ndr), presunto supertestimone delle tangenti pagate da Eni per sfruttare i giacimenti africani, finisce dritto in cella. Per carità, l'arresto non c'entra niente con questa storia ma rimanda alle sentenze aggiustate e alle inchieste combinate dall'avvocato e dalla rete dei suoi amici fra il Consiglio di Stato e la procura di Siracusa, ma le manette non aiutano l'accusa. Il processo per le mazzette versate in Algeria si è chiuso nel nulla, quello relativo al filone Nigeria è andato in testacoda e il tribunale di Milano ha respinto nei giorni scorsi il tentativo in extremis dei pm, a un passo dal verdetto, di ascoltare ancora Amara. Per fargli snocciolare le sue chilometriche rivelazioni. Fra complotti e depistaggi carichi di suggestioni, ma difficili da dimostrare e evidentemente confusi.

Ora dunque l'avvocato, un tempo utilizzato dal gruppo di San Donato per le sue controversie legali, si ritrova in carcere per scontare una condanna definitiva a 3 anni e 8 mesi, come scolpito dalla Cassazione che ha chiuso il caso. La pena è alla confluenza di due filoni: il primo riguarda le sentenze pilotate al Consiglio di Stato e davanti alla magistratura amministrativa; il secondo, ancora più incredibile nella sua fantasia criminale, le indagini innescate artificiosamente per le più diverse ragioni a Siracusa, sfruttando la sponda amica del pm Giancarlo Longo.

Amara era stato arrestato giusto due anni fa, nel febbraio 2018, e aveva raccontato le proprie trame affaristiche in combutta con giudici e avvocati; contemporaneamente aveva aperto il vaso di Pandora dell'Eni, svelando addirittura un complotto gestito dai vertici del colosso petrolifero, a cominciare dall'amministratore delegato Enrico Descalzi, per screditare i magistrati di Milano che inseguivano le mazzette.

Nei mesi scorsi l'azienda lancia la controffensiva, citando l'avvocato davanti al tribunale civile di Terni e chiedendo 30 milioni di risarcimento per i danni di immagine. Amara incassa il colpo con disinvoltura e aggiunge altro materiale al corpus già fluviale della sua narrazione. Siamo ai giorni scorsi: i pm, in difficoltà nel sostenere le responsabilità dei vertici Eni nel sistema del malaffare, tentano di riportare Amara in aula. Ma il collegio, con il dibattimento ormai ad un passo dalla requisitoria, bolla come «non decisivo» il nuovo round. Amara resta lontano dalle luci della ribalta; ma il peggio arriva ieri dalla Cassazione. L'avvocato va in galera per i traffici obliqui avvenuti nelle aule di giustizia: al Consiglio di Stato, ma anche al Cga in Sicilia e alla Corte dei conti, avvalendosi pure di consulenti tecnici compiacenti. In questo modo sarebbero stati alterati verdetti, decreti e ordinanze per un valore di almeno 400 milioni di euro.

Non più in nome del popolo italiano, ma per conto di una cricca di faccendieri.

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