Programmata per essere impotente La Ue non può reagire alla violenza

La creazione di un mercato comune è stata la priorità. L'identità è rimasta in secondo piano: il nemico ci trova divisi Sostieni il reportage

Programmata per essere impotente La Ue non può reagire alla violenza

L'Ucraina e ora la Libia. La guerra sfiora l'Europa ma l'Europa sembra incapace di reagire, di elaborare una strategia. Bruxelles è attenta, giustamente, alle questioni finanziarie ma ai cittadini l'agenda dei burocrati sembra iniziare e finire con l'economia. Sirte in mano ai fondamentalisti islamici? Minacce dirette all'Italia? Deliri sulla conquista di Roma? Prima parliamo del debito pubblico di Atene poi nei giorni seguenti... È ovvio che si guardi con ansia alla Grecia ma l'Isis a un tiro di missile dalla Sicilia e l'ipotesi di una crisi in Ucraina (dal risultato imprevedibile) dovrebbero forse preoccupare molto di più.

Lo sbilanciamento in favore dell'economia non dovrebbe stupire. Il difetto, secondo molti commentatori, sta nella cultura alla base dell'Unione. La creazione di un mercato comune è stata la vera priorità. Il problema dell'identità è rimasto invece in secondo piano. Non per caso. È stata una scelta consapevole: l'«ideologia europea» rigetta l'orgoglio identitario, che assomiglia troppo al nazionalismo di un tempo. L'Unione nasce dalla volontà di non ripetere gli errori del passato, di evitare i conflitti del XX secolo, di espiare le colpe del colonialismo. Questo sogno ha regalato un lungo periodo di pace almeno entro i confini comunitari, illudendoci che una politica estera, vista l'alleanza anche militare con gli Stati Uniti, fosse inutile. Ora il sogno rischia di degenerare in un incubo che paralizza e rende incapaci di replicare alle sfide (identitarie) che provengono dall'esterno ma hanno già valicato le nostre frontiere. Basta dare un'occhiata alle rivendicazioni degli immigrati i quali, per la prima volta, rifiutano l'assimilazione e chiedono, in nome della occidentale tolleranza, di vivere secondo le proprie regole anche qualora fossero in conflitto con le nostre. Basta dare un'occhiata al passaporto degli assassini di Parigi, o al numero di europei convertiti che si vanno ad arruolare nell'esercito del Califfo. Non stiamo parlando solo di islam. In Ucraina l'Unione, nonostante le iniziative di Merkel e Hollande, pare indecisa sulla via da seguire: tenere agganciato Putin all'Europa o fare la voce grossa insieme con gli Stati Uniti? Qual è la nostra vocazione? Ripetere lo schema della Guerra fredda o abbandonarlo una volta per tutte? Speriamo che a Bruxelles qualcuno abbia le risposte.

Sono temi molto discussi all'estero (in Italia siamo fermi alle lodi in gloria dei padri fondatori). Con una battuta paradossale, il filosofo Alain Finkielkraut, nel saggio L'identità infelice (Guanda), si chiede se l'Europa stessa faccia ancora parte... dell'Europa. Il Vecchio continente, infatti, «ha scelto di disamorarsi di sé, di lasciare se stesso, per uscire, una volta per tutte, dal solco della sua storia sanguinosa». L'Europa, scrive ancora Finkielkraut, «non è un “club cristiano”. Non è nemmeno un club scristianizzato. Semplicemente non è un club. Né una comunità d'ascendenza. E nemmeno un'identità post nazionale. È l'ingresso degli europei nell'epoca post identitaria». Gli europei, scrive un altro filosofo, Roger Scruton, sono malati di oicofobia : odiano la casa natale e Bruxelles è pronta a dare loro una mano.

Secondo Finkielkraut, «il proprio» dell'Europa uscita dai trattati è non aver un proprio, semmai diventare la cornice entro la quale accogliere gli Altri, senza nulla chiedere in cambio: «Per l'Europa è giunto il momento

di non essere né ebraica, né greca, né romana, né moderna, né niente ». Era difficile chiedere a qualcuno di morire per Danzica. Figuriamoci chiedere a qualcuno di morire per il niente formalmente noto come Unione europea.

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