«Addio Merlin», s'intitola così l'iniziativa che si terrà oggi alla Camera dei deputati. Lei è Lina Merlin, la senatrice socialista che diede il nome alla legge del 1958 contro i bordelli di Stato. Merlin non era una parruccona ed era mossa dalle migliori intenzioni: lei pensava, o meglio s'illudeva, che con il divieto per legge la prostituzione sarebbe scomparsa dalla faccia della terra. Le cose andarono diversamente, le prostitute si riversarono in strada e l'Italia si trasformò in breve tempo in un bordello unico a cielo aperto. È sotto gli occhi di tutti: l'attività è viva e vegeta, le cifre più accreditate stimano 70mila prostitute per circa nove milioni di clienti e un giro d'affari annuo non inferiore ai due miliardi di euro. È la prostituzione «sregolata» che invade i quartieri residenziali, insiste sui marciapiedi nei pressi di una chiesa o di un asilo, con l'aggravante che nella zona grigia in cui oggi sono relegati sex worker e clienti i rischi per la sicurezza e per la salute personale sono immensi. Né tantomeno si può dire che il divieto abbia aiutato le cosiddette «schiave del sesso», vittime della tratta, private anzitutto della propria autonomia. A sessant'anni di distanza dall'approvazione di una legge che nei fatti ha fallito, una settantina di parlamentari di diverso colore politico - da Scelta civica a Forza Italia, dal Pd ai fuoriusciti Cinque Stelle - propongono di far emergere dall'illegalità un fenomeno che in Paesi vicini, Germania e Austria in testa, è regolato alla luce del sole. Un'esigenza ancora più avvertita dal momento che le nuove regole europee impongono di introdurre nel calcolo del Pil i proventi derivanti dal commercio sessuale. Il testo di cui è primo firmatario Pierpaolo Vargiu (Sc), presidente della commissione Affari sociali della Camera, elenca diritti e doveri. Chi decide liberamente di dedicarsi al sex working deve comunicarlo all'autorità di pubblica sicurezza e all'Asl locale. L'attività può essere svolta nei luoghi pubblici stabiliti dal comune e nei «locali» privati autogestiti. Se il sex worker sgarra è punito con la reclusione domiciliare da sei mesi a un anno e con una multa da duemila a diecimila euro. I lavoratori e le lavoratrici del sesso diventano professionisti a tutti gli effetti, obbligati a registrarsi presso la Camera di commercio e a versare le tasse. I clienti sono tenuti a usare il preservativo contro il rischio di malattie sessualmente trasmissibili e ad accertarsi che l'esercente sia dotato dell'autorizzazione prevista dalla legge. In più, per spazzare via l'ambiguità di diverse sentenze che hanno condannato il locatore «reo» di aver affittato un appartamento destinato alla prostituzione, il testo chiarisce che non può essere condannato per favoreggiamento colui che semplicemente dà in locazione un immobile o pubblica inserzioni e annunci on line o a mezzo stampa.
La proposta del gruppo interparlamentare rappresenta un buon punto di partenza e ha certamente il merito di portare all'attenzione pubblica un tema che nei quartieri delle città italiane è sempre più avvertito come una questione di ordine pubblico non secondaria. La buona politica di questo dovrebbe occuparsi, di risolvere i problemi andando al di là dei pregiudizi. Ci riusciranno? Stavolta sperare è un dovere.
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