Alla radice dell'avarizia la colpa che spiazza i santi e anche i mercati

Il saggio di Stefano Zamagni analizza l'insaziabile voglia di possesso e accumulo

Matteo Sacchi

Dell'avarizia - il peccato capitale di cui tratta il volume in edicola questa settimana con il Giornale - San Paolo diceva che è Radix omnium malorum. Del resto l'«apostolo dei Gentili» poteva contare su un'ampia serie di invettive contro l'avarizia presenti già nel retroterra pagano. Basti pensare alla messa in burla dell'avaro nelle commedie di Plauto. L'avaro non applica la massima di Seneca, «Ciò che è sufficiente non è mai poco». Gli stoici inchiodano il colpevole alla croce della ragione prima del cristianesimo.

Ma si tratta di un peccato «radicale» di cui è difficile capire con esattezza la radice. Almeno con gli strumenti della logica (che guaio per gli stoici). Come spiega l'autore del volume, l'economista Stefano Zamagni: «Perché l'avaro continua ad accumulare insaziabilmente pur sapendo che il potere che la ricchezza gli conferisce mai potrà essere realizzato? L'economia possiede bensì una teoria delle ragioni per fare ciò che l'homo oeconomicus giudica di dover fare, ma non una teoria dei motivi per fare ciò che questi riconosce di dover fare». Insomma la pulsione all'accumulo, salvifica in tempi atavici e poi via via sempre più esiziale, non si lascia blandire facilmente. Ecco perché i padri della chiesa si arrovellarono a lungo attorno a questo peccato per alcuni persino peggiore della superbia, di cui abbiamo trattato settimana scorsa.

Nell'XI secolo, proprio mentre tornavano a fiorire i commerci si trasformò nella vera bestia nera dei teologi, sorpresi da un fiorire di cambiavalute, lettere di credito, banchi e bancarotte... Si cercò così di fissare, in prima fila Bonaventura da Bagnoregio, quale fosse il limite tra il possesso legittimo (il necessario) e la cupidigia. Lo stesso San Tommaso ragionò sul concetto di «saziabilità».

Ma non poteva funzionare, e funziona ancor meno nella nostra società del benessere. Dove alla fine ci rinfacciamo tutti a vicenda di avere o non avere, di spendere o non spendere. Come fossimo in quella terzina dantesca dove i dannati si urlano a vicenda: «Perché tieni? Perché burli?».

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