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La saga della famiglia Rotelli che ha curato mezza Italia

Dal fondatore Luigi alla terza generazione: i 60 anni del più grande gruppo italiano della sanità privata

La saga della famiglia Rotelli che ha curato mezza Italia

Era il 1967. L'Italia del boom correva veloce. A San Donato Milanese Luigi Rotelli lanciava la sua sfida: un ospedale di periferia. Lontano dalle cliniche prestigiose della metropoli, ma vicino alle banlieu sature di immigrati arrivati al Nord con la propria vita stipata dentro una valigia. I sogni aiutano i sogni. Il Policlinico San Donato sorse a pochi passi dall'autostrada del Sole, atterrata in queste campagne tre anni prima, con la benedizione di Aldo Moro, e nei pressi di Metanopoli, il villaggio direzionale dell'Eni, voluto dalla mente visionaria di Enrico Mattei.

È una storia sottotraccia quella dei Rotelli e del gruppo ospedaliero che oggi ha la leadership nella sanità privata italiana: tre generazioni per mettere insieme un piccolo impero formato da 18 ospedali; fra questi il San Donato, la più importante struttura di cardiochirurgia d'Italia, il Galeazzi, punto di riferimento nazionale per la colonna vertebrale, il San Raffaele, strappato nel 2012 alla catastrofe, riemerso dalla voragine di un miliardo di debiti, restituito dopo anni drammatici all'olimpo dell'eccellenza tricolore.

A proposito, tutti hanno masticato la storia di don Verze', ma quasi nessuno conosce la saga, altrettanto avventurosa e temeraria, dei Rotelli.

Luigi, il fondatore. Giuseppe, che ha dato solidità e peso specifico alle aziende di famiglia. Paolo, 28 anni soltanto, e i suoi fratelli, Marco e Giulia, ancora più giovani, che dalla morte del padre nel 2013 mandano avanti quella che un altro pioniere della sanità lombarda, don Gnocchi, chiamerebbe la «baracca».

Una realtà che ha oggi più di 16mila dipendenti e oltre 5mila posti letto. Un piccolo mondo che si celebra allo specchio nel libro. Ritratto di un'impresa che cura il Paese, curato da Allegra Groppelli e appena pubblicato da Rizzoli.

Tutto comincia nel 1957 con una scommessa, ma sarebbe meglio dire un azzardo: Luigi Rotelli si gioca i capitali del suocero Marco Sacchi, fra i proprietari degli Zuccherifici Meridionali, per aprire in cordata con altri la clinica Città di Pavia. È solo il primo passo. La rivoluzione arriva nel 1967 con quell'idea controvento: piantare la bandierina ai margini della metropoli. Del resto Berlusconi e don Verze' battezzeranno le loro opere, ciascuno nel proprio campo, nelle campagne decentrate di Segrate.

Il gruppo cresce, le vicende italiane si intrecciano nel bene e nel male. Luigi è consigliere d'amministrazione del Banco Ambrosiano e forse c'è anche la bancarotta dell'istituto di credito fra le cause dell'ictus che all'inizio degli anni Ottanta lo costringe ad alzare bandiera bianca. Sul ponte di comando s'installa il figlio Giuseppe, che ha una formazione giuridica e ha lavorato alla corte del primo, mitico presidente della Regione Lombardia Piero Bassetti. Giuseppe allarga i confini del gruppo fra Bergamo e Brescia. Poi il terrificante rogo della camera iperbarica del Galeazzi, con 11 morti, impone ad Antonino Ligresti l'uscita di scena: le sue case di cura passano ai Rotelli. Sempre nel segno di un understatement a tratti voluto, ma in parte subito. L'imprenditore cerca visibilità e si accredita nel salotto buono di Rcs Mediagroup. «Ho 17 ospedali - confessa un giorno Rotelli - ma mi conoscono solo perché sono entrato in Rcs». Rotelli diventa il primo azionista del Corriere della Sera con un investimento complessivo di 300 milioni. Non proprio una mossa azzeccata: nel 2013 la famiglia non partecipa all'aumento di capitale e batte in ritirata. Fine della grandeur editoriale, non di una politica aggressiva. Nel 2012 Rotelli, ormai malato, conquista per 405 milioni di euro il San Raffaele, sulle montagne russe di una crisi senza fine. E invece il grande malato torna in salute a tempo record. Giuseppe muore l'anno dopo, in una stanza al settimo piano del Policlinico San Donato. Ora tocca a Paolo, presidente del gruppo, a Marco e Giulia. «Continuiamo ad andare avanti controcorrente, - scrive Gilda Gastaldi al marito che non c'è più ma è sempre con lei e i ragazzi - procedendo coi nostri passi lì dove si sono fermati i tuoi».

Può sembrare retorica, è solo il diario fedele della lunga marcia iniziata tra i prati e i palazzoni dell'hinterland.

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