Se Trump "stecca" sul Darfur

La "pax trumpiana" si trasforma in un negoziato permanente, volto a preservare l'interesse americano

Se Trump "stecca" sul Darfur
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Nella politica estera di Trump guerra e pace s'inseguono a ritmo assai più incalzante che nel capolavoro di Tolstoj.

Il tentativo di comprenderne la ratio, al riparo da giudizi di valore, impone di abbandonare le categorie del passato. Esse appartengono, per l'appunto, al passato. Mentre noi ci troviamo di fronte a un fenomeno inedito che preannuncia tempi nuovi. Ciò che sta accadendo oggi nel mondo non sparirà, anche quando l'ingombrante Presidente con le sue esternazioni roboanti e spesso contraddittorie saranno passati. Trump, lo si è visto in diverse occasioni, deve fare i conti con la base Maga che non ama la guerra e, soprattutto, non vuole sentir parlare di guerra umanitaria e tanto meno di esportazione della democrazia. Le ritiene lussi che l'America e le sue povertà non possono consentirsi.

Egli, però, non è un isolazionista classico. Né tanto meno intende disertare lo scenario internazionale. Di qui una delle linee di fondo della sua politica estera: nessuna nuova guerra (a meno che non implichi una indiscutibile convenienza nazionale), anche se ciò non deve comportare un vero ritiro dal campo. La "pax trumpiana", allora, si trasforma in un negoziato permanente, volto a preservare l'interesse americano. Impossibile comprenderne l'essenza senza misurarsi con la logica del do ut des. Quella del "deal-maker", che considera anche la pace alla stregua di una trimestrale di bilancio. "Non faremo più nulla per voi se non riceveremo nulla in cambio": è questa regola ferrea che si rintraccia in fondo a ogni atto principale della politica estera dell'amministrazione Trump. In Ucraina, l'obiettivo della Casa Bianca è ridurre al minimo il costo strategico e finanziario del conflitto, spingendo gli europei a farsi carico di una parte maggiore dello sforzo bellico. A Gaza, la stessa pressione viene esercitata sui governi arabi, subordinando la ricostruzione al disarmo di Hamas e alla sicurezza di Israele. E ora, anche in Sudan la Casa Bianca si muove per fermare i massacri, esternalizzando la gestione della crisi verso Egitto, Arabia Saudita ed Emirati, chiedendo loro di agire sulle fazioni contrapposte.

Il Darfur, però, rischia di essere lo specchio infranto di questa prospettiva, così come lo è già stato in passato di quella integralmente umanitaria. La gestione tattica del disordine internazionale fondata sull'utilitarismo geopolitico, infatti, non è detto che riesca a interrompere la carneficina. E quel che è ancora più importante, essa potrebbe anche mettere a rischio l'impianto degli Accordi di Abramo, perché alcuni degli attori fondamentali della tentata pace in Medio Oriente finiscono per alimentare le tensioni che invece dovrebbero disinnescare.

Il rischio di questa deriva pone implicitamente il problema di soluzioni di politica estera intermedie: che non rispondano, cioè, all'illusorio idealismo ma neppure all'esasperato cinismo realista. È in questo spazio che l'Europa potrebbe incunearsi. Si tratta di trovare, di volta in volta, il punto di caduta tra opposti estremismi: una via di mezzo tra convenienza e responsabilità, principi e interessi. Nel caso della guerra in Ucraina questa "terza via" è stata almeno abbozzata. Infatti, dopo il vertice di Anchorage tra Russia e Stati Uniti, i leader del Vecchio continente si recarono a Washington per riaffermare il loro sostegno a Kiev. Si trattò di un gesto più importante di molte dichiarazioni ufficiali.

È possibile immaginare che da tale precedente derivi una regola? L'Europa (o parte di essa), se veramente vuole questo - anche al di là della controversia sui veti -, deve trovare luoghi e prassi che le consentano di superare l'inerzia che troppo spesso la condanna a restare spettatrice. E guadagnare il tempo giusto per intervenire, senza pretendere che il mondo si fermi ad attenderla.

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