Sette anni di balbettii e omissioni. E ora Gianfry resta senza parole

Il silenzio imbarazzato dell'ex presidente della Camera

Sette anni di balbettii e omissioni. E ora Gianfry resta senza parole

Roma - No comment. Gianfranco Fini dopo l'«autoarresto» del cognato Giancarlo Tulliani sceglie il silenzio. Una volta tanto c'è poco da biasimarlo, considerata la scomoda situazione in cui si è cacciato l'ex presidente della Camera.

Negli ultimi sette anni, dallo scoppio dello scandalo della casa di Montecarlo, Fini ha erogato verità senza contraddittorio o s'è cucito la bocca, a seconda del momento. E che ora sia rimasto senza parole è comprensibile. Se prima la questione riguardava l'uso spregiudicato di un bene immobile del partito da lui guidato, finito al cognato a un prezzo poco più che simbolico, la storia ha poi preso una piega giudiziaria ben più preoccupante, con la procura di Roma che ha disegnato nella sua inchiesta sulla holding del gioco di Francesco Corallo tanto Fini quanto i Tullianos come un gruppo di riciclatori. Una banda di beneficati che avrebbe goduto di una pioggia di soldi da parte del re delle slot proprio perché in famiglia c'era la terza carica dello Stato. Per la procura, il ruolo istituzionale di Fini sarebbe stato l'incentivo fondamentale per rendere i Tullianos interessanti agli occhi di Corallo, che stava sbarcando in Italia nel redditizio mercato del gioco legale. Adesso, col cognato arrestato negli Emirati in attesa di estradizione, l'ex numero uno, fondatore e affondatore di An, non ha molto da dire aspettando che la procura sciolga le riserve e chieda di mandare la family a processo per riciclaggio.

Meglio tacere che replicare risposte sulla falsariga degli otto «chiarimenti» a caldo sull'affaire immobiliare, che nulla chiarivano all'epoca e che, alla luce dei successivi eventi, si sono rivelati un autogol. Meglio il silenzio di quelle parole messe a verbale con i magistrati che lo hanno interrogato ad aprile. Quando di fronte alle toghe romane Fini ha ammesso di aver saputo a dicembre 2010 che la casa era del cognato. Ma di aver continuato a negare e ad accreditare la panzana del Giornale come «macchina del fango» per un motivo ben preciso: convenienza personale: «Temevo - dice - sfavorevoli conseguenze politiche: avevo, infatti, dichiarato che mi sarei dimesso se si fosse scoperto che la casa di Montecarlo era stata acquistata da Tulliani».

Così è restato per altri 27 mesi sulla poltrona di presidente della Camera. Le altre dichiarazioni rese in procura sono un'accorata autodifesa, nella quale Fini nega praticamente tutto, scarica ogni responsabilità sul cognato (e in parte sul suocero) e difende la moglie, Elisabetta, a suo dire coinvolta a sua insaputa dal fratello solo per «provare» a Corallo che Fini era a conoscenza di quei rapporti d'affari. Dei quali, invece, lui giura di non aver mai saputo nulla. Perché Corallo, che pure Fini lo conosceva direttamente, si sarebbe dovuto fidare, questo l'ex leader di An non lo spiega. Dice, piuttosto, che i soldi della ricchissima plusvalenza incassati rivendendo nel 2015 l'appartamento monegasco finirono a Elisabetta «a titolo di risarcimento».

La procura non gli crede. Anni di chiacchiere e affermazioni contraddittorie sono finite agli atti.

E ora che Giancarlo è in arresto, Fini ha rispolverato il «Miranda warning» reso celebre dai film americani: «Lei ha il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirà potrà e sarà usata contro di lei in tribunale».

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