U n pateracchio sottobanco, un accordo tra vecchi compagni di merende per tenere sotto controllo la propria banca, ricorrendo persino a trucchetti da furbetti del quartierino. È questo lo scenario che l'inchiesta della Guardia di finanza ha scoperchiato all'interno di Ubi, terza banca italiana per capitalizzazione, da sempre feudo di Giovanni Bazoli. Che il Grande Vecchio della finanza cattolica, oggi presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, fosse indagato per il suo ruolo nelle assemblee del 2013 che garantirono alla sua cordata il dominio su Ubi era noto ormai dal maggio scorso, quando per la prima volta venne alla luce l'indagine della procura bergamasca. Ma ieri i finanzieri tornano all'attacco con una raffica di perquisizioni, e vengono alla luce nuovi e curiosi dettagli. Un guaio che arriva nel momento peggiore: alla vigilia di un cda di Rcs che oggi a Milano dovrà in qualche modo tirare le fila su spaccature profonde tra i soci e discutere di conti. Bazoli si guarda bene dal parlare di «giustizia a orologeria» o cose simili, ma è chiaro che di questo grattacapo avrebbe fatto volentieri a meno, anche perché rischia di portare munizioni al fuoco dei suoi rivali all'interno dell'azionariato del Corriere della sera .
Di fronte all'arrivo delle fiamme gialle negli uffici di Ubi, Bazoli ieri fa sapere che l'iniziativa «afferisce al medesimo procedimento in corso dall'anno passato, dichiarando la propria totale estraneità ai fatti». Roba vecchia, insomma. Ma se è vero che il tema di fondo è in parte noto dal maggio scorso - gli accordi tra i soci bresciani e bergamaschi di Ubi, ovvero Bazoli da una parte e Emilio Zanetti dall'altra - per garantirsi la vittoria in assemblea, è anche vero che nel corso di questi mesi le indagini della finanza avrebbero portato a galla nuovi dettagli. Delle migliaia di deleghe che consentirono alla cordata Bazoli-Zanetti di sconfiggere i rivali, una quota rilevante sarebbe stata rastrellata filiale per filiale tra i clienti-soci. E interrogati dalla Guardia di finanza, una parte di essi avrebbero escluso di avere mai firmato nulla.
Certo, Bazoli non può essere sospettato di essersi occupato materialmente della raccolta delle deleghe. Ma l'accusa che gli viene mossa, quella di «ostacolo alla vigilanza e illecita influenza su assemblea», fa capire che per il pm di Bergamo, Fabio Pelosi, era lui il regista dell'operazione di addomesticamento. Insieme a Bazoli, a maggio erano stati raggiunti dagli avvisi di garanzia altri quattordici esponenti di spicco di Ubi. Ieri all'elenco si aggiungono altri cinque nomi, quattro interni a Ubi, il quinto è quello di Rossano Breno, ex presidente della Compagnia delle opere di Bergamo. La Cdo, braccio imprenditoriale di Cl, avrebbe contribuito alla raccolta di deleghe, e Breno venne cooptato nel consiglio d'amministrazione della Banca popolare di Bergamo. «La Compagnia delle Opere ha svolto un ruolo determinante nell'organizzazione dell'assemblea di Ubi banca del 2013, raccogliendo deleghe e organizzando militarmente gli iscritti per ottenere le maggioranze assembleari volte a nominare gli attuali vertici», attacca Giorgio Jannone, l'ex parlamentare del Pdl che era alla testa di una delle cordate sconfitte dal duo Bazoli-Zanetti.
Accanto all'indagine principale viaggia - ed è forse il fronte più imbarazzante - quella sulle attività di Upi Leasing, la controllata di Upi che si sarebbe trasformata in
macchina da quattrini per gli amici degli amici, che si vedevano cedere beni a prezzi di superfavore. E affiorano dettagli curiosi, specie per una banca di stretta osservanza cattolica, come quello del jet affittato a Lele Mora.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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