Il ragazzo indossa un paio di pantaloni di velluto lisi marroni, e una giacca di un colore simile, scolorita come se fosse cosparsa di calce. Ha lo sguardo terrorizzato e mangia piano un panino. La ragazza accanto a lui e meno impaurita, ma, appena viene osservata, abbassa gli occhi. Dai tratti del viso sembrano eritrei. Stanno seduti su un gradino davanti alla stazione di Palermo. Ai piedi hanno dei sacchettini contenenti del cibo e una bottiglia d'acqua. Le scarpe sono belle, nuove. Sono le scarpe di chi è appena sbarcato. È la prima cosa che viene consegnata ai naufraghi nei porti siciliani, insieme ad acqua e cibo. È il piccolo kit per chi arriva dal mare, per chi rimane e per chi sparisce.
La Sicilia dove in cinque giorni sono approdati diecimila immigrati sta diventando la terra di una seconda fuga. Verso il nord Europa. In alcuni casi verso città del sud dove il lavoro nero nei campi viene pagato meno di un euro l'ora. In altri ancora verso un nulla non controllabile. Ormai tutti coloro che arrivano dal mare chiedono asilo politico. Dopo la pre-identificazione, sotto le tende montate nei porti da polizia e Croce Rossa, arrivano nei centri e fanno domanda. Appena possono se ne vanno, alcuni il giorno stesso dell'arrivo. Per avere una risposta ci vuole fino a un anno.
Nella Sicilia di frontiera sembra siano saltate tutte le regole. Circa la metà degli oltre mille immigrati sbarcati a Palermo il 14 aprile si sono allontanati dai centri di accoglienza. E anche in queste ore, a tre, quattro giorni di distanza, si muovono nelle vie intorno alla stazione, accelerano il passo quando vedono una divisa. In realtà lo fanno per paura, perché tutti sono liberi di andare, tranne i tunisini, che vengono portati nei Cie, i centri di identificazione ed espulsione. Ma anche loro, ci racconta un operatore nel porto di Trapani, se presentano domanda di asilo e non ottengono risposta entro venti giorni, non hanno vincoli, possono uscire. Questo succede perchè chi è nei Cie, dove vigono regole diverse dai centri di accoglienza, è a tutti gli effetti in uno stato detentivo, e ha quindi la precedenza di tempi sugli altri. Ma le risposte alle richieste di asilo preferenziali non arrivano mai entro venti giorni. Quindi entrare nei Cie significa essere fuori in tre settimane.
Un'altra coppia, all'apparenza subsahariani, cammina alla stazione di Palermo verso la fermata degli autobus che portano nelle altre città siciliane. Lo sguardo è lo stesso degli eritrei, c'è il terrore stralunato di chi arriva da una battaglia con il mare. I naufraghi si riconoscono, oltre che dagli occhi e dalle scarpe, anche dal cappellino di lana, che indossano spesso. Sono i fantasmi di una frontiera colabrodo, abbandonata dall'Europa a dal mondo, che non sa più dove ospitare i bisognosi e che rischia di far passare in queste maglie larghe non solo disperazione, ma pericoli senza controllo.
A Porto Empedocle ai marocchini viene invece consegnato il famoso foglio di via, l'intimazione a lasciare il Paese entro cinque giorni. Anche questa è libertà. Possono partire verso il nord. Subito. Non da Porto Empedocle, ma da Aragona, una stazione successiva più defilata. Inseguire chi va via significherebbe intasare i centri già stracolmi. «Succede anche - ci racconta l'operatore di Trapani - che alcuni tunisini vengono caricati su pescherecci con bandiera di Tunisi e in prossimità della costa raggiungono terra a nuoto».
A Trapani si vedono i nuovi arrivati girare in bicicletta per le strade della città. Alle sei si avvicina al porto un rimorchiatore che ha caricato gli ultimi migranti dalla Libia. Sono centonovanta, tutti uomini. Dal Mali, dal Ghana, dal Senegal. Avanzano scalzi verso i volontari della Croce Rossa. La prima cosa che ricevono è un braccialetto bianco.
Qualcuno zoppica, molti hanno il cappuccio della felpa calzato sulla testa. Uno si inginocchia e bacia l'asfalto del molo, poi il braccialetto. Qui c'è solo l'Italia e i suoi braccialetti bianchi, senza regole e al collasso.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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