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"È stato il più capace tra noi colonnelli. Quella volta che mi salvò dall'ira di Bossi"

L'ex ministro: "Quando arrivai nella Lega lui era andato a lavorare a Londra. Umberto ci ripeteva: adesso torna e ci aiuta, è bravissimo"

"È stato il più capace tra noi colonnelli. Quella volta che mi salvò dall'ira di Bossi"

Ad un certo punto nella Lega di Bossi, sotto al Capo assoluto, c'erano i colonnelli, i «tre Roberti»: Calderoli, Castelli e Maroni. Pari grado, o quasi. «Sicuramente tra noi tre quello che aveva più carisma, più capacità politica e anche più udienza nei media era lui», confessa Roberto Castelli, uno dei leghisti storici che con Maroni hanno condiviso decenni di politica e di Lega.

Castelli, lei diventa leghista nella prima metà degli anni '80, Maroni e Bossi erano già in pista.

«Maroni era circondato da una sorta di aura, da un alone di mistero, perché dopo la fase pioniristica della Lega, quella della Fiat 500 rovinata dalla vernice quando lui e Bossi andavano in giro ad attaccare manifesti e scrivere sui muri, Maroni se n'era andato a Londra a lavorare come legale della Avon. E Bossi ci ripeteva sempre: ora torna Maroni che è bravissimo e ci dà una mano. E noi aspettavamo tutti questo Maroni».

Poi tornò effettivamente: prima deputato, poi più volte ministro.

«Nemmeno lui immaginava che avremmo raggiunto cariche come quelle che abbiamo poi ricoperto. Solo Bossi ci credeva. Ci diceva: preparatevi, dovremmo gestire milioni di voti! Lo guardavamo come un matto. Neanche Bobo ci credeva».

Era di fatto il numero 2 di quella Lega.

«Bossi aveva estrema fiducia in lui, basti pensare che con solo due anni esperienza da parlamentare lo mandò a fare il ministro dell'Interno, un ruolo cruciale e delicatissimo, il primo ministro non Dc al Viminale. In quella fase i pochi che potevano interloquire con Bossi erano Miglio, Formentini e Maroni».

Già allora aveva l'immagine del leghista dialogante e moderato.

«È sempre stato capace di coltivare rapporti, anche a sinistra. Era sicuramente il più governativo di noi. Il ruolo di segretario federale non faceva per lui, non era un trascinatore di folle o un oratore che infiamma le platee. Il meglio lo ha dato nei ruoli istituzionali. Nonostante fosse leghista, e quindi bollato da un marchio di infamia, Maroni è riuscito a ricoprire cariche importanti senza mai subire critiche pesanti».

È vero che una volta la «salvò» dalle ire di Bossi?

«Qualcuno aveva detto al capo che io volevo fondare una mia Lega, solo perché alcune sezioni avevano affisso dei manifesti a mio sostegno. Bossi mi chiamò di notte: ti sbatto fuori. Gli spiegai che non era vero, però mantenne dei dubbi. Venni poi a sapere che era stato Maroni a convincerlo della mia buona fede».

Negli ultimi anni si era un po' allontanato dalla Lega?

«Forse non condivideva alcune scelte. Ma è sempre rimasto un leghista. Ne ho visti tanti che si sono fati travolgere dal potere e hanno cambiato rotta per mantenerlo, Maroni no. Si è sempre ricordato del perché era leghista. È stato lui nel 2017 con Zaia a promuovere i referendum per l'autonomia.

Magari era moderato, ma non si è mai dimenticato di essere leghista, cosa che non si può dire di tanti nella Lega di adesso».

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