Venduti tutti, ma a caro prezzo. È un conto salato quello che il Tesoro italiano sta pagando a causa della crescente contrapposizione fra il governo e l'Unione europea soprattutto sulla gestione dei nostri conti pubblici. Non senza qualche preoccupazione, a fronte della fuga degli investitori stranieri dal debito tricolore, Via XX Settembre doveva collocare ieri sei miliardi di euro di Btp a medio termine. Missione compiuta, con tuttavia un effetto collaterale non proprio indolore. Per riuscire a piazzare 2,25 miliardi di Btp a 10 anni, il ministero guidato da Giovanni Tria ha dovuto offrire un tasso del 3,25%, 37 punti base in più rispetto al 2,87% della precedente asta dello scorso 30 luglio. Stesso movimento a salire anche per il rendimento dei 3,75 miliardi di Btp a 5 anni, arrivato al 2,44% con un rialzo di 63 punti base rispetto all'1,8% dell'asta precedente. Un doppio surriscaldamento che ha anticipato la risalita dello spread con il Bund a quota 286,4 dai 271 punti dell'apertura.
Insomma, resta ai livelli di guardia la tensione nei confronti di tutto ciò che è espressione dell'elevato livello d'indebitamento dell'Italia alla vigilia del verdetto con cui Fitch potrebbe, in base alle indiscrezioni circolate, tagliare da «neutrale» a «negativo» l'outlook, cioè le prospettive dell'Italia. Di sicuro, se già poco piaceva l'incertezza che grava sulle coperture necessarie per sostenere reddito di cittadinanza, riforma della legge Fornero e flat tax, agli investitori piacciono ancora meno le più recenti intemerate sullo sforamento del rapporto del 3% tra deficit e Pil, considerate un altro segnale di deriva dei conti statali e di allontanamento dalle sponde delle riforme. Con l'apporto a scartamento ridotto della Bce ancor prima della fine del quantitative easing prevista per dicembre (gli acquisti mensili dei nostri asset si sono già ridotti a soli 3-4 miliardi contro i precedenti 15), il Tesoro non ha strumenti per calmierare i tassi malgrado l'apporto delle banche italiane, in qualità di acquirenti, durante gli ultimi collocamenti. Servirebbe una mano estera pesante disposta a investire sul nostro debito, come per esempio la Cina. Dove, infatti, è stato nei giorni scorsi Tria per tentare una moral suasion propedeutica all'acquisto dei nostri Btp.
Interrompere l'escalation dei rendimenti è del resto fondamentale per impedire un peggioramento dei danni già subiti. Secondo i calcoli di Lucio Malan, vice capogruppo vicario di Forza Italia al Senato, le due aste di ieri sono costate ai contribuenti 542 milioni in più rispetto alle emissioni precedenti, «10 euro a testa, incluso neonati e nullatenenti. Ma il totale di questi tre mesi di governo del cambiamento è il triplo, oltre 1,5 miliardi». Facendo gli scongiuri nella speranza che non venga replicato il bagno di sangue del 2011, quando la maggior spesa per interessi toccò i 47 miliardi nei successivi sei anni, un aumento dell'1,5% dei rendimenti l'anno prossimo, sui circa 400 miliardi di bond che finiranno sul mercato, equivarrebbe già a un aggravio di oltre 6,5 miliardi. È, guarda caso, la cifra ipotizzata dall'Osservatorio sui conti pubblici italiani diretto dall'ex commissario alla Spending review, Carlo Cottarelli, che stima un aggravio nel periodo maggio-agosto di 898 milioni e di 5,1 miliardi nel 2019, per un totale di 6 miliardi nel biennio. Sempre che l'uscita di scena di Mario Draghi, il cui mandato scade nel novembre dell'anno prossimo, e un possibile rialzo dei tassi da parte della Bce non complichino ulteriormente la situazione, al netto dei provvedimenti di politica economica che prenderà Palazzo Chigi.
C'è inoltre un aspetto, più nascosto ma non meno importante, da considerare.
Lo stress sui rendimenti costringe il Tesoro ad accorciare la durata media dei titoli, proprio allo scopo di attenuarne l'impatto sui conti. Ma facendo ciò, si andrebbe nella direzione opposta rispetto a quella finora seguita proprio per ridurre la vulnerabilità della spesa per interessi alle oscillazioni dei mercati.
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