"Via il suo nome dal simbolo". Ma Salvini controlla i gruppi

Il nord leghista in agitazione, dal Veneto l'idea di tornare al vecchio logo. Tutti fedelissimi tra Camera e Senato

"Via il suo nome dal simbolo". Ma Salvini controlla i gruppi

Il flop alle elezioni ha fatto esplodere l'area meno salviniana della Lega e dato forza alla corrente che punta ad un cambio di leadership, passando dai congressi regionali per arrivare poi al federale. Una dialettica che era già presente prima del 25 settembre ma che hanno avuto una brusca accelerazione dopo il tracollo al nord. Se però i territori leghisti sono in agitazione, il timone della Lega è ancora ben saldo nelle mani del segretario. Il consiglio federale gli ha riconfermato la fiducia, i governatori mugugnano ma poi si allineano. In più, Salvini ha il totale controllo dei gruppi parlamentari, una leva che conta monto per la gestione del potere interno ad un partito. Il Capitano leghista, come gli altri leader del resto, ha sfruttato le elezioni per costruirsi una truppa parlamentare di fedelissimi, piazzandoli nei posti buoni delle liste e mettendo gli altri, ad esempio quelli considerati in area Giorgetti, fuori dai collegi uninominali (i posti sicuri) o in posizioni difficili della quota proporzionale. Il repulisti era iniziato tra l'altro già prima, con l'esclusione dalle liste dei leghisti in odore di dissidenza. E così alla Camera e Senato il segretario può contare su un esercito fedele alla causa.

Non altrettanto si può dire della base della Lega, quella dei territori. Anche i pretoriani di Salvini finiscono nel mirino. In Piemonte viene messo in discussione Riccardo Molinari, fedelissimo di Salvini, capogruppo alla Camera e numero uno del Carroccio piemontese. Un duro atto di accusa è arrivato dal deputato uscente Paolo Tiramani, ex sindaco di Borgosesia: «Abbiamo messo da parte le nostre storiche battaglie per diventare la brutta copia di Fratelli d'Italia» si è sfogato sui social, incolpando le «scelte non condivise con il territorio, decise da poche persone nella stanza dei bottoni. Per dare una nuova spinta ci vogliono congressi provinciali, regionali e federale».

In Veneto c'è un'aria ancora più tesa. «Torniamo al sindacato del nord, è la nostra ragione sociale e ci ha sempre premiati» osserva Alberto Villanova, capogruppo della Lega in Regione Veneto. L'autonomia, tema che sta molto a cuore ai leghisti veneti, deve tornare al centro. «La questione settentrionale è il nostro dna, i voti li abbiamo persi al nord» spiega l'assessore regionale Federico Caner. «Ci siamo snaturati, portare il partito più a destra è stato un errore».

Un errore di Salvini, si intende, anche se «non si tratta di mettere in discussione il segretario ma di fare un ragionamento politico». Poi, però, tra i ragionamenti c'è quello di levare il nome Salvini dal simbolo: «Un logo con il nome del segretario non va bene», dice l'assessore leghista. «Quando abbiamo tolto la parola nord dal simbolo abbiamo perso la nostra identità» dice Fulvio Pettenà, fedelissimo di Zaia. E ci sono esponenti veneti ancora più duri (l'eurodeputato Da Re) che chiedono direttamente le dimissioni di Salvini. Altri, invece, chiedono che il segretario ottenga un ministero specifico, quello degli Affari Regionali. «La priorità del Veneto, e di tutto il Nord, è l'Autonomia Regionale: non c'è alternativa», spiega in una nota il consigliere regionale veneto Fabrizio Boron.

Nel frattempo la vecchia guardia della Lega prepara un'assemblea autoconvocata, «ai dovrà decidere se non valga la pena ragionare di un nuovo contenitore, un nuovo partito» dice all'Adnkronos Gianni Fava, ex deputato leghista e ultimo sfidante di Salvini nel congresso del 2016.

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