La vita è tutta una questione di aspettative. La prima volta che ti aspettavi X e arriva Y, ci rimani male, la seconda volta ti consideri sfigato, la terza volta t'incazzi. Ma alla quarta volta ti sorge il dubbio: non è che per caso mi aspettavo la cosa sbagliata? Domani entriamo in agosto, e siamo ancora qui ad aspettarci il sole fisso e lo scudo protettivo dell'anticiclone delle Azzorre che chissà dov'è andato a finire, forse s'è perso e staziona sull'Islanda o sul Nepal. E siccome sia giugno sia luglio ci hanno, climaticamente, preso per i fondelli, è proprio il caso di metterci nuovamente a novanta gradi per essere inchiappettati dalla pioggia battente e dalle temperature autunnali? Tutto sommato no, non è il caso. Siamo uomini o temporali?
Non voglio barare fingendo, tanto per fare il bastian contrario rispetto al collega Gatti, d'essere un gourmet del tempo uggioso 365 giorni l'anno, un crepuscolare 24 ore su 24. Però devo dire che quest'estate («e la chiamano estate, questa estate, senza teeeee», cfr . Bruno Martino) traditrice, piena di acque fuori tempo massimo e di nuvoloni scozzesi, questa estate del nostro scontento, questa quinta stagione che si fa beffe dei nostri programmi balneari e che laggiù in spiaggia, lontano dalla città dove ora sono, fa aprire gli ombrelloni in funzione di semplici ombrelli, mi sta simpatica. Lo dico da fan abituale dell'afa, delle temperature tropicali, meglio se appesantite da alto tasso di umidità. In genere io non rimpiango, come Villon, « les nieges d'antan », le nevi di una volta, bensì il solleone e l'arsura, i morsi del caldo inclemente.
Ma nella mia amata-odiata Milano si dice « temp e cu al fa cum'è vor lù ». La tradizione non tradisce, dunque, con buona pace dei meteorologi che si affannano a cercare nel cielo isole felici di alta pressione manco fossero pagati dagli albergatori di Rimini o di Alassio. E poi, a dirla tutta, il tempo brutto presenta anche dei vantaggi, se resti in città e se hai la fortuna di non finire tumulato in una voragine come quella di Porta Romana («a Porta Romana, ier sera pioveva», cfr . Enzo Jannacci).
L'umor nero con cui ti svegli trova puntuale e confortevole riscontro con il resto nel mondo non appena apri le finestre; il rammarico per non essere altrove insieme a chi sai tu viene mitigato da quella sorta di «tanto peggio, tanto meglio» che è la consolazione dei falliti; il rientro a casa, sul tardi andante, fra una pozzanghera e l'altra, lo vivi quasi come l'approdo a una terra promessa e asciutta, tipo Robinson Crosue.Senza contare il solito refrain che prima o poi dovrebbe avverarsi: «Dopo la pioggia viene il sereno».
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