Un popolo che guida senza testa

Siamo sempre pronti a lamentarci per i ritardi nei soccorsi e per le carenze (innegabili) delle istituzioni. Ma continuiamo a metterci al volante trascurando norme di sicurezza e raccomandazioni di prudenza

Fosse stato tutto qui, il diabolico inverno da scavalcare prima di sentire il trillo argentino dei ruscelli primave­rili, i contadini dell'Albero degli Zocco­li ci avrebbero messo la firma. Fosse stata solo questa, la «morsa del gelo» e la neve da affrontare, di gran lunga me­no dolenti sarebbero state le invoca­zioni a «Maria Santiiissima» elevate da mia madre agli albori degli anni Ses­santa, quando sbarcammo da Messi­na nella «new frontier» di una Brianza così gelida che noi, laggiù nell'Arizo­na, pensavamo esistesse solo nella fan­tasia dei fratelli Grimm. Per il loro fi­glio undicenne, i miei genitori non ave­vano che pantaloni corti, e certo mai gli sarebbe venuto in mente che si do­vesse scalfire con le unghie il ghiaccio che al mattino presto si formava sui fi­nestrini (dico sulla parte interna!) del pullman che ci portava a scuola, da Barzanò a Monza, per vedere la Yaku­ti­a che si stendeva tra Casatenovo e Le­smo. Ma erano gli anni Sessanta, appun­to, e nessuno si sognava la tecnologia, e i climatizzatori, e gli indumenti tecni­ci e la dovizia di bollettini meteorologi­ci che oggi ti dicono esattamente che tempo farà, a Roncobilaccio, o a Lago­negro, nelle prossime quattro ore. E invece eccoci di nuovo qui, avvinti a un argomento affrontato già fino alla sazietà nel corso degli anni da giornali­sti di ogni ordine e grado; chi avventu­randosi sui toni gravi della tastiera, evocando emergenza, disastro, impre­videnza, inadempienze di enti locali e colpe di protezioni civili; e chi slan­ciandosi su quelli più acuti, dove la bef­fa, l'ironia e il sarcasmo si tengono a braccetto sul piano inclinato di un Pae­se che sembra andare alla deriva in un mare di ghiacci e nebbie (o di calure infernali a ferragosto, è lo stesso) ma che il giorno dopo scopre che era tutto uno scherzo, e il dramma -sa mai dramma fu- è già alle spalle. Dieci centimetri di neve, quattro gra­di sottozero (la norma, signori miei, la norma, in questa stagione), e l'Italia puntualmente si ingavona, scarroc­ciando malinconicamente al seguito di un Tir messo di traverso. Che beffa, quella di non imparare mai nulla dal passato, neppure da quello prossimo. Che immensa, collettiva fesseria quel­la di dover riconoscere ogni volta che siamo punto e daccapo, e che se c'è una cosa che noi italiani non sappia­mo gestire, banda di sciamannati, è la normalità. Il sale grosso diventato più raro del pepe rosa, la mancanza di catene a bor­do, l'imprevidenza di un sistema che dovrebbe bloccare gli accessi all'auto­strada con atti d'imperio che sarebbe­ro salutati con brividi di riconoscenza ancor prima che si profilino ingorghi terrificanti, o ancor prima che si renda­no indispensabili (in mancanza di quelle a bordo) le catene umane dei volontari della Protezione civile arma­ti di vin brulè, di taniche d'acqua e co­perte. Eppure, questa che abbiamo enumerato è solo una parte, un fram­mento delle imprevidenze che ogni volta trasformano le disgrazie in cata­strofi e i disagi in SOS. Le gomme da neve, per esempio. E le catene a bordo (magari non solo a bordo, ma proprio montate sulle ruo­te!) Non c'è nessuno, diciamo la verità, che non sia d'accordo sulla loro utilità. Ce ne saremmo dotati già tutti, se non fossimo lacerati, schizofrenicamente inchiodati a un destino che pare invin­cibile, e ci vuole Nazione percorsa sot­topelle da una ineludibile vocazione anarchica, ma parimenti posseduta da una straordinaria nostalgia di ordi­ne e legalità ( sempre che siano gli altri, a dare l'esempio). Eppure, se abbia­mo accettato che ci obbligassero a cambiare l'auto (tutta l'auto) sostenen­do che la nostra inquinava troppo, for­se possiamo inghiottire il rospo dei pneumatici da neve, considerando che i vantaggi non sono frutto di fan­tasy, ma che presentano un qual certo inoppugnabile vantaggio.

Così, in attesa di un mea culpa collet­tivo cui faccia seguito un improbabile scatto d'orgoglio altrettanto collettivo, ci piace chiudere questo articolo ricor­dando le note di Bach che si allargava­no sulla campagna bergamasca de­scritta da Ermanno Olmi mentre nel cielo diaccio, allora come oggi, echeg­giano i tre grandi temi virgiliani: labor, per uscire vivi dalla trappola in cui ogni volta finiamo per cacciarci; pie­tas, per chi ha passato la notte in auto, sbadigliando alla luna e masticando orrende ingiurie; fatum, da ricordare a chi pensa che potrebbe essere facile, in fondo, per questo Paese, raggiunge­r­e un giorno un livello di normalità ac­cettabile come si vede, per esempio -dico un'enormità- a Bruxelles e din­torni.

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