"Il populismo ha un re: Beppe Grillo"

Secondo il politologo, anche Celentano e Santoro sanno interpretare sensazioni, repulsioni e sogni del pubblico. Ma la piazza (materiale o virtuale) sa anche vendicarsi, bocciando chi la spreme troppo

"Il populismo ha un re: Beppe Grillo"

Professor Tarchi, sui rapporti fra democrazia e populismo i politologi hanno opinioni opposte: chi li considera incompatibili e chi li definisce «gemelli litigiosi». Il suo parere?
«Sul piano delle ispirazioni ideali, un rapporto stretto è evidente: sia i democratici, sia i populisti fondano la legittimità del potere sull’affermazione della volontà del popolo. La democrazia dei populisti, però, presuppone un popolo inteso come entità unitaria, che parla con voce univoca, e spesso si affida a un capo che, della volontà popolare, deve essere il ventriloquo. La versione liberale della democrazia presuppone invece il pluralismo e si articola in istituzioni rappresentative, mediate dalla classe politica».

Nel 2003, in anticipo su molte discussioni attuali, Lei pubblicò per il Mulino «L’Italia populista» dove diceva, in sostanza, che non sempre il populismo è un male per la democrazia. Ne è ancora convinto?
«Più che altro, sono convinto che il populismo sia una componente fisiologica e non patologica dei sistemi democratici, e che ci si debba convivere. Credo tuttora che sia una valvola di sfogo per l’insoddisfazione che molti cittadini provano nei confronti di un ceto di politici professionisti - la famosa “casta” - che tende a rinchiudersi in se stesso e appare più preoccupato di gestire i propri privilegi che di ascoltare le richieste di coloro di cui dovrebbe interpretare i bisogni e le aspettative».

Obama, Sarkozy, Zapatero: il ruolo determinante svolto dai leader politici nelle democrazie contemporanee è un fatto accettato. Quanto ciò facilita o determina la «deriva» populista?
«Occorre distinguere tra populismo e quella che si definisce la “leaderizzazione” della democrazia, che è legata alla trasposizione del confronto politico nell’arena dei mass media, dove il pubblico dei poco informati ha bisogno, per orientare il proprio voto, di identificare con chiarezza le parti in causa, deve legare un volto a un partito. L’immagine del leader, in questo senso, sostituisce l’ideologia. Il populismo è un’altra cosa: è una mentalità a suo modo articolata, di cui l’affidamento al capo è solo una componente. I politici citati, usano a volte uno stile populista per farsi percepire più vicini all’“uomo della strada”, ma nei comportamenti spesso si rivelano estranei a quella mentalità».

E veniamo al caso Italia, considerata il «paradiso populista». Si è detto che il populismo, dopo la frantumazione dei partiti storici nei primi anni ’90, ha infettato la politica. Quali sono stati i partiti e i politici «più populisti»?
«Una vena di populismo nella politica italiana c’è sempre stata. Basta pensare a varie correnti risorgimentali, da Mazzini a Pisacane. Del resto, una sorta di divinizzazione del popolo serviva, una volta che ci se ne proclama interpreti, a contrapporsi a sovrani che da un preteso diritto divino traevano legittimità. Tratti populisti hanno percorso l’esperienza fascista, anche se il Mussolini che trebbiava il grano a torso nudo e proclamava l’“andare verso il popolo” era tutt’altro che un semplice ventriloquo e non nascondeva la convinzione che, senza la fusione nella nazione e l’affidamento alla ferrea guida dello Stato, il popolo fosse solo una massa informe. Nel dopoguerra, dal Fronte dell’Uomo qualunque in poi, gli interpreti della mentalità populista sono stati molti: Achille Lauro, il Pannella della stagione d’oro del Partito Radicale, gruppi extraparlamentari come Lotta Continua, la Rete, la Lega, Di Pietro, Berlusconi, i girotondi... Beninteso: ognuno di questi soggetti ha espresso alcuni aspetti della mentalità populista, non tutti. Il populismo va inteso come un’entità fluida, che impregna in modo esteso il modo di pensare e di agire di un attore politico. Solo quando ciò varca un certo limite si può parlare di populismo in senso stretto».

Luca Ricolfi giorni fa sulla «Stampa» ha osservato come in Italia «i partiti contano sempre di meno e le identità politiche si forgiano nel rapporto tra elettori e leader». Aggiungendo che populismo e leaderismo, sia per il Pdl sia per il Pd, oggi sono armi vincenti per aggiudicarsi la maggioranza.
«Se si parla, sia pur metaforicamente, di armi, gli effetti che queste producono è dovuto sempre prima di tutto alle azioni di chi le maneggia. Io sono un osservatore realista della politica, che rimane più che mai un campo in cui per raggiungere l’oggetto del desiderio - il potere - i contendenti sono disposti a usare ogni mezzo, purché suppongano di farla franca. Non è piacevole dirlo, ma le cose stanno così, e Ricolfi ha ragione. Che poi siano dei politici ad agitare il miraggio della moralizzazione di un ambito dell’attività umana che, da Machiavelli in poi, sappiamo autonomo, estraneo se non refrattario alla morale, la dice lunga: sono espedienti retorici».

Lega, Di Pietro, Berlusconi: chi è più populista oggi?
«Nel caso di Berlusconi, si tratta di una personalità che esprime, efficacemente, il volto populista di un partito che non è integralmente tale, avendo al proprio interno, ormai, una fetta significativa della classe dei politici di professione. Lega Nord e Italia dei Valori sono, invece, movimenti che esprimono in modo pieno, con poche varianti, la mentalità populista. E pur alleati con partiti collocati in settori concorrenti dello spettro politico, di fondo sono ambedue estranei alla linea divisoria sinistra/destra».

Grillo, Celentano, Santoro: anche i leader non politici ma «contro la politica» sono populisti?
«Certo. Grillo è il caso più significativo. Oggi è lui il miglior interprete dell’Italia populista: ne intuisce e ne rappresenta con efficacia le sensazioni, le repulsioni, i sogni. Il problema di tutti questi tribuni del popolo è che, quando in un modo o nell’altro cedono alla tentazione di fare politica in modo diretto, suscitano nei seguaci un’istintiva diffidenza, il sospetto che vogliano diventare “come gli altri”. E questo pericolo incombe anche sulle liste civiche che i “grillini” vorrebbero presentare».

Mentre la destra da sempre «difende» ed esalta il proprio leader, la sinistra negli ultimi anni ne ha bruciati uno dietro l’altro, da D’Alema a Prodi, da Veltroni a Soru. La mancanza di un vero capo rende la sinistra meno populista?
«No. La sinistra, un po’ in tutta Europa, è stata fortemente segnata dal populismo alle origini, perché aveva una precisa idea del popolo e intendeva farsene cura, riscattarlo. Già il prevalere nel suo seno di istanze classiste, che quel popolo dividevano, ha cambiato le cose. Poi è arrivata un’ondata di intellettualizzazione che, nel segno del “progressismo”, ha ribaltato il rapporto.

Un tempo il “cafone”, l’incolto, l’umile lavoratore, la casalinga, erano figure di culto del socialismo; oggi sono il bersaglio del sarcasmo degli eredi di quella corrente politica, che guarda alla cultura d’élite e li considera “carne da cannone” al servizio dell’avversario. I tempi cambiano».

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