Felice Modica
Montevideo
M entre il taxi, dall'aeroporto di Carrasco (progetto dell'archistar uruguaiano Rafael Vinoly, costo 165 milioni di dollari, traffico di 4,5 milioni di passeggeri all'anno, più o meno quanti gli abitanti di tutto l'Uruguay), mi conduce al centro della ciudad vieja di Montevideo, scorrono alla mia sinistra chilometri di spiagge dalla sabbia fine e bianca. Palmeti sulla sabbia, piccole vele bianche da diporto punteggiano il mare che poi mare non è, è il grande fiume d'argento (di tutte le sfumature dell'argento, qui si sottolinea) del Rio de la Plata, il gran rio como mar, appunto lo chiamano. È domenica e ci sono ragazzi che pescano con le sciabiche, lupi di mare con quelle canne lunghe che i pescatori di tutto il mondo chiamano «bolognesi». Giovani uomini e giovani donne che fanno jogging sull'interminabile avenida balneare. Sembra Miami. So che, se facessi fermare l'auto e scendessi a terra, potrei sentire in lontananza il rumore attutito del tamboril, il piccolo tamburo suonato nelle feste popolari con una bacchetta sola. Tutto evoca i Tropici, nella capitale più australe del mondo.
Ma l'omone sbracato che guida il taxi ha altro por la cabeza. Tiene la radio a tutto volume, dove trasmettono una partita della sua Nazionale: sta pareggiando 2-2 non ho capito contro chi. Al goal del 3-2 il radiocronista esplode nel tipico urlo da stadio sudamericano, il taxista molla lo sterzo per esultare, e quasi ci schiantiamo. Senza perdere un grammo di aplomb mi congratulo per il brillante risultato e, mentre il mio pilota euforico mostra orgoglioso sulla destra l'estadio centenario, «dichiarato monumento internazionale del football dalla Fifa», faccio sfoggio di cultura calcistica risalente alla prima infanzia, ricordando che la nazionale uruguagia vinse, nel 1930, il primo campionato del mondo. Ciò aggraverà sensibilmente la delusione e lo sbigottimento dell'autista, nell'apprendere quando mi chiederà di «tracciargli un quadro del panorama calcistico italiano» che «non tengo passione futbolera» e sono l'unico italiano che non aspira a vestire i panni di commissario tecnico della Nazionale.
Ci lasciamo in pace. Appagato dal risultato sportivo, mi guarda con la benevolenza riservata ai lontani parenti bislacchi che hanno capito poco della vita. Scendo alla città vecchia, centro storico della capitale, passando per l'antica porta d'ingresso a plaza Independencia. Verso il porto sul Rio de La Plata, il colpo d'occhio della baia di Montevideo è da tempo purtroppo precluso a chi guarda da terra. A meno che non salga sul Cerro, la montagnola che, secondo improbabile vulgata, avrebbe dato il nome alla città («Monte video» avrebbe esclamato un ignoto marinaio di Magellano). L'accesso al porto è infatti disciplinato dai tornelli, sottoposto a rigidi controlli di polizia e riservato alle merci e ai passeggeri che arrivano dal mare. Eppure nel porto c'è l'anima di una Nazione, la sua stessa ragione d'esistere.
«Se il Nilo è il padre dell'Egitto, il porto di Montevideo è il padre della nostra Nazione». Comincia così, appunto, con ostentato orgoglio patriottico, la Storia del porto di Montevideo, volume edito dalla facoltà di Ingegneria della capitale, di cui José Maria Fernàndez Saldaña ha curato la prima parte, «dall'epoca coloniale al 1887» e l'ingegnere Eduardo Garcia de Zùñiga la seconda, «dal 1887 al 1931». Anche l'italiano Ulderico Tegani, in un saggio molto documentato del 1931, descrive il porto come «una città nella città», che cinge la vecchia capitale d'una rete di calate, pontili, piazzali e «alle sue spalle s'assiepa e si protende, tuttora pulsante di laborioso movimento, quello che da gran tempo ha veste e funzione di quartiere commerciale». Così - prosegue Tegani in un empito di lirismo «il viaggiatore che s'avvicina a quest'ampia rada platense e dal ponte della nave scorge la graziosa collina donde Montevideo ha derivato il suo nome gentile, coglie subito il senso del suo rango civile e delle sue cospicue capacità positive dall'avanguardia delle dighe e dei moli, dei bacini e delle darsene e dalle folte alberature dei navigli, dal vistoso apparato marinaresco che sembra muovergli incontro e compone dinanzi ai suoi occhi un pittoresco scenario di vita, di bellezza, di forza».
La baia di Montevideo è l'unico approdo naturale relativamente sicuro in un lungo tratto di mare molto pericoloso. Tanto pericoloso che, nel 1891, da queste parti, si costituì una società anonima per «l'estrazione di tesori sottomarini» derivanti dai numerosissimi naufragi. La piccola nazione dell'Uruguay, stretta fra i colossi Argentina e Brasile, deve la sua autonomia all'importanza strategica del porto, esempio della difficile sfida dell'uomo alla Natura.
Questa grande via di accesso al mondo, da cui si importano ed esportano sogni, «sul gran rio come mare», dalle acque insieme dolci e salate, è a volte calma e tranquilla come stagno, altre furiosa più di un leone ferito. È allora il tempo delle pamperade, quando il pampéro, il vento freddo del Sud, porta, non solo quello che contemporanei divertiti meteorologi han battezzato frìo pinguinesco, ma anche terribili tempeste che l'abilità ingegneristica dell'uomo, grazie a un complesso sistema di canali, dighe e barriere, riesce a imbrigliare neutralizzandole. Grazie al porto e al suo commercio, la città è cresciuta nei secoli, diventando, a partire dal 1830 la capitale politica, amministrativa, culturale della Repubblica Orientale dell'Uruguay: un balcone sul Sud del mondo. In tempi recenti, nel 2009, l'amministrazione nazionale portuale ha predisposto un piano di ampliamento del porto, allo scopo di accrescerne l'importanza internazionale.
Sono state modernizzate le strutture portuali, purtroppo allontanando il terminal passeggeri dalla Ciudad Vieja, il che ha peggiorato l'immagine del centro storico, determinandone il degrado e il parziale abbandono da parte dei residenti. Come già detto, oggi si deve salire sul monte o arrivare dall'acqua per cogliere l'anima della Capitale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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