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Prandelli: «La mia Fiorentina metà Liverpool, metà Udinese»

Dopo 12 mesi dedicati alla moglie malata («Ora sta meglio») il tecnico torna in panchina

Franco Ordine

«Sta bene, è serena, tranquilla». Per capire la scelta di Claudio Cesare Prandelli, uomo e marito di primissima qualità, di lasciare un anno fa il calcio, la panchina, comoda e attraente della Roma, per far ritorno nell’arena, adesso, da un’altra parte, a Firenze, bisogna partire dalla domanda più banale e struggente («Cesare, come sta tua moglie?») e prender nota della sua risposta squillante. Sembra un rullo di tamburi. Ha fatto le cure, avuto Cesare al suo fianco, è sotto controllo, ma soprattutto «è serena e tranquilla» informa il nostro ragazzo che è diventato uomo all’improvviso, mentre tutto intorno è rose e fiori, soldi e divertimento, veline e matrimoni, feste in Sardegna e vacanze ai Caraibi. Così Prandelli si appresta a tornare e a puntare su Firenze e sul progetto di Della Valle. L’annuncio è prossimo, questione di giorni, di ore, «metà settimana» sussurra Cesare agli amici che lo incrociano sotto casa e gli chiedono di Annamaria, la moglie, e della Viola, la prossima squadra. «È vero, dalle mie parti (provincia di Brescia, ndr) ce ne sono molti che tifano per la viola» conferma lui che non è certo il tipo disposto a dire qualcosa pur di «arruffianarsi» il popolo fiorentino.
Cassano dimenticato. Un anno da marito, per Prandelli, partito per Roma e poi tornato a casa, lasciando sul posto quel Gianburrasca di Cassano cui dedica una distratta dichiarazione, è il segno della minima considerazione, «non ho avuto il tempo per conoscerlo». Già, la Roma. «Se non è riuscito Gigi Del Neri che è un fior di professionista, vuol dire che avrei fallito anche io» spiega. Si riparte allora dopo aver controllato da vicino il calcio italiano. «Siamo passati a un campionato a 20 squadre, di solito i nostri club si fanno prendere alla sprovvista ed invece l’hanno affrontata in modo giusto. Segnalo, tra tutti, Cagliari e Messina, appena salite dalla serie B: avrebbero potuto sprofondare nel finale e invece han tenuto botta» è la sintesi dal suo osservatorio di Orzinuovi. «Tra Juve e Milan la differenza l’ha fatta la coppa dei Campioni. Riposando Capello ha tirato fuori il meglio delle sue energie e il carattere di acciaio», ricorda.
Due modelli. Eppure, a inseguire una normalità che ha il valore di una conquista, Cesare Prandelli si porta dentro la testa e la valigia da aprire nello stadio fiorentino due modelli da esportare facilmente. Ecco il primo: «È l’Udinese: l’approdo in Champions league è il premio al lavoro di molti anni, alle scelte giuste, fatte insieme con l’allenatore, in sintonia perfetta con l’ambiente che non si ribella se parte Jankulowski e anzi appare curioso di scoprire quanto vale questo Barreto, classe 1985, preso dal Treviso». Il secondo è un nome popolarissimo dalle parti di Appiano Gentile, Liverpool. Insiste Cesare: «È la rivelazione europea dell’anno, e non solo perché ha vinto. Perché è una squadra che sa stare in campo, non perde mai la testa, mai ho visto scene isteriche dai suoi, dietro c’è il lavoro quotidiano dell’allenatore entrato nella testa dei suoi. Nessuna stella, molti uomini tosti, duri a morire».
Adriano e Gilardino. Ha allenato entrambi, li ha seguiti e sentiti spesso al telefono, è capace di dare giudizi calibrati. Date ascolto ai consigli del Cesare: «Ho detto di recente al brasiliano: non ti vedo più sorridere, non sei più tu. Adriano non è una macchina, ha fatto sei mesi stratosferici poi è andato in crisi e si è infortunato. Deve riposare, fare vacanze e tornerà quel ciclone capace di trascinare da solo l’Inter». Scommette sull’altro bomber: «Su Gilardino nessun dubbio: è un fuoriclasse. Confermarsi col campionato fatto dal Parma, è un’autentica impresa. Il Milan ha fatto un colpaccio, datemi retta». Sono gli uomini d’oro del torneo, «l’altro è Ibrahimovic». Tra i giovani una segnalazione a sorpresa: «Si tratta di Motta, esterno sinistro dell’Atalanta. Tra qualche tempo ne sentirete parlare».
Difendo Ancelotti. «Sono dalla parte di Ancelotti, messo sotto accusa al ritorno da Istanbul e non per una malintesa solidarietà tra colleghi. Se vuoi far del male a qualcuno, nel calcio, devi augurargli quel che è accaduto al Milan: vincere 3 a 0 all’intervallo, e poi perdere ai rigori la coppa Campioni. Io ho provato la sensazione ad Atene, con la Juve, non ero disponibile, ma non c’è paragone, datemi retta. In quei sei minuti Ancelotti non ha avuto il tempo di far niente. Aggiungo: non sarà facile togliersi dalle spalle quell’amarezza. Io vedo le facce dei milanisti in tv e sono ancora sotto choc. Chissà quando passerà».
Nazionale e dintorni. Ha appena ascoltato l’Arrigo al telefono («lo sento carico, ce la farà a rifare grande il Real Madrid»), ha da poco rintuzzato attacchi al Ct Lippi («il bicchiere è mezzo pieno»), ha da tempo attaccato tolleranza zero («ma quando mai s’è visto che le regole vengono introdotte a un mese dalla fine del campionato!») e aperto alla moviola («sì ai sensori dentro la porta») prima di tuffarsi nel suo lavoro e andare alla scoperta di Firenze. Confessa alla fine: «Ho una sola convinzione: la differenza non la fanno i moduli, ma le motivazioni».

E gli uomini, viene da aggiungere pensando a lui, a Claudio Cesare Prandelli, e a Benitez del Liverpool.

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