Dal premier le risposte agli italiani dopo anni di chiacchiere à gauche

Edmondo Berselli, in un articolo pubblicato ieri dalla Repubblica, rimproverava il presidente del Consiglio per avere egli definito di «vera sinistra» la politica del suo governo. In particolare l’accusava di un agire paternalistico del quale l’intento «di surrogare il deficit culturale e comportamentale dell’opposizione» sarebbe secondo Berselli la prova. La replica è ovvia: il primo a usare consimile figura retorica è stato D’Alema. Con sufficienza ha occupato un decennio a dirci che la sinistra doveva fare una politica di destra perché quest’ultima in Italia era impresentabile. Dunque il paternalismo sarebbe concesso se emanato da un D’Alema; ma inammissibile se di Berlusconi? Altra questione di non piccolo esito: in Italia c’è la sinistra? Quel Partito democratico che si scioglie nel peggiore dei litigi, solo che provi a scegliere a Bruxelles tra il Partito popolare o quello socialista, sarebbe di sinistra? Oppure a Chianciano il raduno di fegatosi finiti attorno a Nichi Vendola può dirsi ancora tale? Persino costoro che si dicono di sinistra hanno infatti un leader che chiede loro di interrogarsi «sui nostri corpi sessuati e sulla grammatica degli amori». Una simile sintassi da gne gne sarebbe di sinistra, e abbassare l’Ici o tassare i petrolieri invece no?
Ora ognuno ha la sua parte; dunque il suo pregiudizio; ma la pretesa, al vaglio della sola logica, regge ben poco. E non mi pare la debolezza della tesi di Berselli si limiti solo a questo. Il fatto è che la sinistra europea, e quella italiana, ora patiscono davvero un «deficit culturale», per dirla con un economicismo che non mi piace, e però nell’articolo in questione si usa. Ad esempio la Social Card viene esecrata e ricondotta pure lei all’accusa di paternalismo. Sostituirebbe all’impersonalità della redistribuzione dello Stato una personalizzazione intollerabile, che darebbe «patente di marginalità». Ora il punto dottrinale è un altro. La marginalità non è specificata solo da reddito o indigenza; ma piuttosto dal difetto comunitario. Inoltre quale maniera migliore per perseguire un obiettivo di integrazione, che trasferire i lucri in più di petrolieri, banche, cooperative ai meno abbienti, e in forma di cibo?
La sinistra è rimasta non a Keynes, il quale peraltro da liberale speculatore certi abusi non se l’era mai sognati; neppure al culmine dei suoi snobismi negli anni ’30. Ma alla versione keynesiana, da Labour anni ’50. Modello Strachey. Del resto l’intellettualità prodiana è di molto restata ignorante. Non sa chi era Simons, della scuola di Chicago. Non ha mai riflettuto su Dumezil. Sulla moneta a tempo di Rudolf Steiner, o quella di Gesell, ha vaghe idee, poundiane nel migliore dei casi. E che il liberismo più coerente sia quello di Bruno Leoni neppure l’immagina. Vive in una sua dolciastra terra di nessuno, per cui si professa talora persino liberista. Ma non ha letto Von Hayek o non ha capito quanto sia reazionario. Né mancano i neofiti di un liberismo che spiegano agli altri senza averlo mai capito. Berselli non mi pare sia a riguardo un’eccezione. Comunque si tranquillizzino. Il governo non si è ancora spinto «a una architettura gerarchizzata».

Ma per parte mia io spero in una gerarchia di funzioni comunitarie, e una prossima estensione della Social Card in altri campi. In conclusione. Non può dirsi proprio che Togliatti sia di sinistra e Malatesta invece di destra. Dunque anche perciò la pretesa libertaria del nostro premier, con tutti i suoi difetti, ha una sua liceità.

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